La teologia del cinghialeLa teologia del cinghiale di Gesuino Némus, edito da Elliot nel 2015, è entrato a sorpresa tra i sei finalisti del Premio Bancarella.

A sorpresa fino a un certo punto. Chi ha letto La teologia del cinghiale ne è rimasto subito impressionato per la vastità dell’opera prima di Matteo Locci, che scrive con lo pseudonimo o meglio l’eteronimo, alla Pessoa, di Gesuino Némus.

Libro vastissimo che si situa tra il romanzo di formazione e il giallo esistenziale, saltando tra i vari registri linguistici come si passa di palo in frasca, creando una innovativa commistione tra il registro aulico e il genere Pop(olare).

Fin dall’uscita del romanzo si è creata una rete di idolatri, che ricorda da vicino le prime comunità cristiane, che con il passaparola ha diffuso il Verbo di Gesuino Némus, perché dalle catacombe della Sardegna si spargesse per tutto il Continente fino ad arrivare, grazie ai lettori e ai librai indipendenti, alla finale del Premio Bancarella.

Proprio nella sua tana in Sardegna, come bracconieri letterari, siamo andati a scovarlo, a stanarlo come si caccia di notte il cinghiale, per capire finalmente chi è realmente Gesuino Némus e come ha fatto ad arrivare al Premio Bancarella dal nulla.

La teologia del cinghiale è entrato nella sestina della selezione al Premio Bancarella. Grande soddisfazione immagino.

Immensa. Mai avrei immaginato che i librai indipendenti, gli unici eroi che io ami veramente, mi votassero. È stato come se mi avessero, inconsciamente, premiato per tutto l’amore che io ho avuto nei loro confronti fin da quando avevo sei anni, comprando sempre i libri da loro, anche dai bancarellai. Io sono sicuro di questo: l’hanno percepito dal mio libro, pur senza conoscermi realmente. Eroi e maghi, ecco.

Un esordio fortunato quello del tuo libro La teologia del cinghiale. Ma chi è Gesuino Némus? Chi si cela dietro lo pseudonimo e perché?

Si cela un uomo che ha lavorato duramente fin dall’infanzia. La mia esistenza non ha niente di straordinario, così simile alla vita che ha fatto quella che viene definita, comunemente, “la gente”: cioè, almeno il 99% degli italiani. Forse, la parte interessante, è che i miei lavori ammontino a 28, escluso quello dello scrittore, visto che è l’ultimo che ho intrapreso. Ho conosciuto il lavoro nei campi; le fabbriche di Milano, quando ce n’erano ancora; le cooperative di facchinaggio e lo scarico merci nei supermercati; ma anche la correzione delle bozze nelle case editrici, le agenzie pubblicitarie, i palcoscenici teatrali e televisivi, per poi riprecipitare nell’inferno della disoccupazione, delle agenzie interinali e, ancora peggio, di quelle di stampa. Preferivo scaricare cassette all’Ortomercato, piuttosto che fare, per cinque anni, il “negro” scrivendo 120 articoli a settimana per 1€ a cartella. Sì, avete letto bene: 480 euro al mese, perché alla mia età non ti vuole nessuno e «queste sono le condizioni…».
E allora mi sono dato lo pseudonimo che corrispondeva a ciò che ero stato veramente in tutta la mia vita: Némus, che in sardo vuol dire nessuno. Non ho scelto nomi roboanti né finte desinenze nobiliari. Niente ero stato: nulla volevo essere. Proprio come il mio eroe Odisseo, nell’antro di Polifemo: «Chi sei, tu?» – «Nessuno». Quando ho inviato il manoscritto, l’ho fatto con la mail che avevo creato all’uopo, con l’eteronimo che avevo scelto e, solo alla firma del mio primo contratto, ho svelato il mio vero nome a Loretta Santini, la mia direttrice editoriale Elliot: l’unica donna al mondo che abbia accettato di pubblicarmi. Ma qui siamo oltre il coraggio: questa è follia.

Come nasce La teologia del cinghiale. Qual è lo spunto dal quale è nato il libro?

Nasce dal caos e dall’ordine naturale che ne è scaturito. Mi spiego meglio. Avevo passato tutta la vita, fin dalle elementari, a lavorare e studiare. Sudavo e leggevo, mi spezzavo la schiena e scrivevo: e sognavo. Non c’è stato un solo giorno della mia vita in cui non abbia letto e scritto qualcosa, anche solo un raccontino di due pagine. Il problema è che io lo facevo solo per me stesso, per la mia personale felicità e non per una qualche paturnia di revanscismo sociale. Ero figlio di un pastore analfabeta, avrei potuto spezzarmi in due per avere un destino migliore, una professione che mi consentisse una qualche forma di prestigio, anche economico. Niente. Io leggevo, scrivevo e sognavo per me stesso. E, quando cresci così, libero e selvaggio, Joyce e Paperoga, Canetti e Tiramolla, Bulgakov e l’Orso Yoghi, hanno lo stesso valore ontologico. Diventano il tuo “Essere”; teologia e “Cronaca Vera”; filosofia e “Residuo Specifico a 180°”, ti danno la stessa felicità. Poi, un giorno, esattamente un anno fa, ho completato il primo dei 18 volumi da cui è composta La Teologia del Cinghiale. Mai, prima d’allora, avevo mai fatto leggere qualcosa a chicchessia. Il disordine era cessato per incanto; e ho cominciato a scrivere, scrivere, scrivere, scrivere senza più fermarmi. Ma l’ordine è arrivato da solo, come per sfinimento dei neuroni preposti all’accumulo di memoria. Secondo me hanno detto: «Ora basta, non hai più giga. Memoria completa, liberare spazio nel tuo disco rigido». Avevo scritto 8.888.888 caratteri, spazi esclusi, senza che nessuno avesse mai letto niente di me. Secondo me, neanche io. Mi verrebbe da citare Foucault, ma non mi è mai piaciuto tanto. Preferisco Nietzsche, uno dei pochi che possa definirsi più pazzo di me: «Bisogna avere un caos dentro di sé, per partorire una stella danzante».

Dal tuo romanzo si evince un forte legame con il territorio, come spesso accade per i narratori isolani, qual è il tuo rapporto con la Sardegna?

È molto di più che la mia terra. È tutta la mia vita. Tutto è nato lì. Lì sono tutti i miei ricordi, la mia fatica, la mia gioia nel leggere i miei primi libri. Vedi, a casa mia, la prima volta che abbiamo avuto un televisore è stata a settembre del 1972. Avevo quasi quindici anni e fino ad allora l’avevo vista solo nelle immagini delle poche riviste che riuscivo a procurami. Sembra incredibile che un ragazzino di quell’età, potesse leggere, proprio nel momento in cui il tecnico montava quel catafalco, l’Ulisse di James Joyce. Ora, lo so che sarebbe molto figo dire che la disdegnai e continuai “assorto” nella lettura ma, me ne impipai altamente e vidi tutte, ma proprio tutte, le Olimpiadi di Monaco, comprese le batterie eliminatorie del lancio delle freccette. Ecco, mi sono liberato. Faccio outing adesso, ma tanto Stanislaus, suo fratello, mi perdonerà: c’ho una birra che neanche gli irlandesi, guarda…

Da dove vieni? Siamo curiosi di conoscere la tua formazione, perché nel romanzo citi di tutto, si sentono varie influenze, anche teologiche e filosofiche.

Fisicamente provengo da Jerzu, un paese che ora ha poco più di 3.000 abitanti, purtroppo, celeberrimo per il suo meraviglioso Cannonau e per l’operosità dei suoi abitanti, proprio nel cuore dell’Ogliastra. Mi chiamo anche Matteo, ma ho pensato che in questo momento, in Italia, ce ne fossero un po’ troppi. Ai miei tempi ero l’unico a chiamarmi così. Come formazione, diciamo che all’interno di questo “ordinato disordine”, la filosofia e la teologia sono state molto importanti. Mi perdonerai se non vado oltre ma, vedi, ogni volta che di un romanziere ho letto, in quarta di copertina “Filosofo” ho pensato, kantianamente “a priori”: «Questa è una palla pazzesca». E non mi sono mai sbagliato. Quindi, sorvoliamo, se me lo permetti. Ma compenso l’eventuale curiosità di qualche lettore, dicendoti che suono, fin dall’età di otto anni, l’organo a canne (quelle vere), la chitarra flamenco, mia vera grande passione, dall’età di 14, e qualche altro strumentino, così, per mero divertissement e solo in presenza di amici fraterni. Non mi piace esibirmi in pubblico, anche se l’ho fatto in passato, ma solo perché mi pagavano bene.

Lo scrittore che più ha influenzato la tua scrittura e che senti più affine?

Sai che non lo so con certezza? Tutto è stato così disordinato nella mia formazione e, come avrebbe detto Manlio Cancogni: «Tutto mi è piaciuto». Direi, però, che come modo di narrare Bulgakov e come stile, Joyce, ma anche Céline, soprattutto per la sua maestria nell’uso dell’Io narrante.

Che ruolo hanno avuto e hanno i libri nella tua vita?

Lo dico nel penultimo capitolo della Teologia del Cinghiale: «Mi hanno salvato la vita e mi hanno reso umano». E ti dirò di una frase che purtroppo è stata tagliata all’interno di un dialogo, nel capitolo XX e che nessuno leggerà mai: «E quando vi sentite poco bene, prima di andare dal farmacista, entrate da un libraio: spendete meno e vi divertite di più». Io credo veramente al potere terapeutico della lettura e ne sono una dimostrazione vivente (insomma…).

Il libro che ti ha cambiato la vita?

Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Soprattutto la frase: «I manoscritti non bruciano». Non ci credi? Allora sappi che il manoscritto della Teologia, nella sua versione autografa, è sopravvissuto a due incendi devastanti: uno nel 1998 e uno nel 2004. L’unica cosa a salvarsi è stata un quaderno cinese, nero e bordato di rosso, con su scritto: La Teologia del Cinghiale, volume I. Se non è magia questa…

Un libro disperso, non più ripubblicato o dimenticato e poco letto, che vorresti consigliare ai lettori di Piego di Libri?

Non so se sia stato ripubblicato. Io ne ho una versione del ‘64: Vita del pitocco di Francisco de Quevedo. Piansi, quando lo lessi, ma dalle risate!

Cosa stai leggendo in questo momento? Qual è il tuo libro sul comodino?

Ne ho 5, quelli dei miei concorrenti, visto che Gianni Tarantola, presidente del Bancarella, ha consegnato a tutti i vincitori i libri degli altri concorrenti e poi ha detto che mi interroga. Ora sto terminando quello di Cavanna, La nave delle anime perdute. Amo molto i romanzi storici e lui è molto bravo. Ma li leggerò tutti. E quando mai mi ricapita che mi regalino 5 libri tutti insieme?