Leggendo “American dust” viene subito in mente il giovane Holden Caulfield. Infatti tra Salinger e Brautigan si aggira imperterrita una commovente comica tristezza. Un’aria di irrimediabilità, che permea anche le cose più banali. Un’aura di morte anche, di irreversibilità e perdita. Che viene a decadere all’improvviso per un effetto comico. Molto chapliniano, se vogliamo. Da clown triste. Che fa ridere con la lacrima dipinta sul viso.

Così il protagonista di questo romanzo ci racconta la sua infanzia, è necessario. Un ritornello ritorna ossessivo «Prima che il vento si porti via tutto / Polvere… d’America… Polvere» e infatti l’urgenza di narrare è necessaria. So the wind won’t blow it all away, titolo originale dell’opera. Perché il vento della dimenticanza non spazzi via tutti i ricordi.

Quello che questo ragazzo ci vuol dire, del 17 febbraio del 1948, a proposito di hamburger e di un fucile calibro .22, ce lo accenna all’inizio e ce lo svelerà alla fine.

All’inizio è la scelta. La dicotomia tra hamburger e proiettili. Alla fine la scelta è stata fatta, alea acta est. Non vi diciamo quale, ma al ragazzo non rimane che diventare, negli ultimi anni di scuola, il più grande esperto mondiale di hamburger. Talmente ossessivo nelle sue ricerche bibliografiche da mandare in crisi nervosa una curiosa e incredula insegnante, che non si capacita di tanto zelo.

E con questo non vi abbiamo certo detto che abbia scelto gli hamburger.

Ma questo è solo il fatto più importante del libro, un aspetto secondario se vogliamo, relegato a continui rimandi e condannato a essere trascinato indifferentemente fino alla fine del romanzo.

Quello che non conta davvero. Per cui la narrazione si dilunga in continue elaborate deviazioni. Che hanno l’aspetto di una ben calibrata reticenza. Sono altri minimi fatti di quell’estate del 1947.

Quello che non conta minimamente e che si dipana per le cento pagine di questo romanzetto canaglia. Sono proprio gli accadimenti dell’estate del 1947. Un po’ alla maniera dello Sterne, se vogliamo. E di quel divagare attorno alla sua nascita proprio di Tristram Shandy. Semplicemente perché procrastinando la sua nascita allontana anche la morte (dilungandosi e perdendosi in interminabili allungatoie, dilata il tempo del romanzo e ne sposta sempre più in avanti la tragica, inevitabile ultima pagina, dove è scritto fine).

A dire il vero però, ma l’avevamo già detto veramente, anche gli accadimenti di quell’estate del 1947. Nonostante la loro sconfinata mania di protagonismo. Sono assolutamente banali e di poca importanza.

Un furgone con a bordo due strani figuri avanza con lentezza verso il lago. Il loro lento avvicinamento dura tutta la durata del libro. Quando saranno vicini al lago sparpaglieranno lì attorno i mobili del loro soggiorno e seduti sul divano si metteranno a pescare (probabilmente ora sono morti, erano talmente grassi e con una faccia da infarto-a-cinquant’anni, eppure nel ricordo eccolì ancora lì, che avanzano lentamente verso il lago, continuamente, lentamente, finchè il vento non si alzerà).

Aspettandoli il protagonista va a trovare l’alcolizzato guardiano di una segheria per recuperare i suoi vuoti e rivenderli al supermercato. Lì potrebbe arrivare un ladro e portarsi via la segheria intera, ma il guardiano, pieno di birra, non s’accorgerebbe di niente.

Poi sulla sua strada incontra un vecchio barbone. Un altro personaggio ben strano. Che vive in una capanna costruita con legno d’imballaggio. Vive vicino al lago, dove ha costruito anche un piccolo pontile e una splendida piccola barchetta di legno. Un vero gioiellino, che però non ha mai usato.

Insomma il romanzo è racchiuso nell’arco temporale del tempo necessario per compiere il giro del lago. In attesa che arrivino quelli dei mobili per mettersi a pescare comodamente (e a proposito di quei due ci sono perle come questa: «Si mise semplicemente a trafficare come fanno le donne quando vogliono pensare a una cosa e hanno bisogno di tempo»).

Nel mentre che il protagonista compie il giro del lago, rimembra. Ad esempio mentre sono a circa a mezzo chilometro dal lago di ritorno dalla segheria con un sacco pieno di bottiglie di birra in spalla, parlerò di qualcosa d’altro.

E allora ci parla di quando nel 1940 andò a vivere in un appartamento annesso a un’impresa di pompe funebri, dalla cui finestra, quasi ogni mattina, spiava il susseguirsi dei funerali. Fino a un giorno indimenticabile, in cui fu la volta del funerale di un bambino.

Forse è proprio allora che inizia il suo interesse per la morte di altri bambini e da allora, mentre cammina attorno al lago, ci racconta di come e quando la morte è entrata e mai più uscita dalla sua vita.

Ci racconta della piccola figlia dell’impresario delle pompe funebri che aveva le mani freddissime e che il protagonista, anch’esso bambino, giocando con lei aveva il terrore di toccare.

Poi c’è la storia di cinque anni dopo. Di quando muore il suo vicino di casa. Un ragazzino di soli due anni più grande di lui e lui se ne accorge perché per la prima volta la sua amata bicicletta rimane esposta alla pioggia, sotto al ciliegio del giardino.

Poi, vagabondando per gli Stati Uniti per finire in un alloggio in cui la madre è obnubilata dal terrore ossessivo che ci possano essere fughe di gas, è la volta della storia della bambina che muore di polmonite. E i suoi genitori devono seppellire con lei anche tutti i giocattoli della casa. Perché le sorelle sopravvissute hanno il terrore di giocare con i giochi di una morta.

Comiche storielle di questo tenore insomma.

Questo è un modo di leggere il romanzo. Goderselo, in tutta la sua comica tristezza, in tutti i suoi macabri episodi giovanili. Di morti precoci e ridicoli effetti collaterali. Lasciandosi trasportare da un’ilare malinconia. Cullati dal ritmo dell’altalena che compie le sue oscillazioni temporali tra i fatti dell’infanzia del protagonista, fino alla sua precoce adolescenza.

Poi c’è un altro modo di vedere le cose perché…

…il romanzo, apparentemente semplice e lineare, è un concentrato di espedienti narrativi d’avanguardia. Qualcosa tra John Barth e Vladimir Nabokov. Per intenderci. Qualcosa che gli studenti di un corso universitario di teoria e tecnica della letteratura devono passarci su un semestre a capirlo e a disinnescarne le varie semiotiche trappole narratologiche.

Ad esempio a pagina 19 promette: «mia madre e le mie sorelle non compariranno più perché non c’entrano niente con questa storia» salvo poi cambiare idea. Come succede a tutti: «vi prego di accettare le mie scuse e preparatevi a vederle ricomparire a pagina 21». Oppure ci sono effetti grafici come quando vuole sottolineare che ai funerali la gente si muove molto l e n t a m e n t e).

E poi un continuo saltellare tra gli anni in frastornanti sbalzi temporali. L’autore ci dice di cominciare a narrare in un giorno preciso «mentre sono seduto qui in questo 1º Agosto del 1979, accosto l’orecchio al passato come ai muri di una casa che non c’è più». E farà ancora riferimento a quell’agosto del 1979. Mentre poi è tutto giocato tra il 1947, il lago. Dove ricorda gli anni precedenti, prima della scelta tra hamburger e proiettili. Il 1948, quando accade ciò che accadde. E il 1949, dopo lo spartiacque rappresentato dal secondario fatto principale del romanzo (Vi ricordate? Hamburger o proiettili).

Insomma, per dirla tutta, un interminabile romanzetto. Quasi un’accozzaglia di raccontini. Apparentemente banale. In cui sembra non accadere nulla. Apparentemente raccontato con lineare semplicità.

Un libercolo che racchiude un tragico evento secondario e molteplici fatterelli di poca importanza, che diventano protagonisti. Come quei mobili del soggiorno, quelle lampade, quelle masserizie, quei tavolini, quella stufa a legna (il fumo che uscì dalla stufa cercò disperatamente un tubo e non trovandolo si mise a vagare lentamente da una parte all’altra come uno zoppo smemorato).

Oggetti e mobili che lentamente, quelle due comparse, adagiano sulla riva del lago. Per poi mettersi quietamente a pescare… altre storie… e altre ancora… vivide e guizzanti (e boccheggianti)… nelle acque torbide e profonde della letteratura.

P.s. questo romanzo è anche il ‘testamento letterario dell’autore’. Infatti Richard Brautigan si sparerà un colpo di fucile calibro .44, due anni dopo la stesura del libro, nel 1984. Un’altra chiave di lettura: tra biografia e finzione. L’urgenza di narrare del narratore era anche quella dell’autore: «Prima che il vento si porti via tutto, e non rimanga che polvere».

Autore: Richard Brautigan
Titolo: American Dust
Titolo originale: So the wind won’t blow it all away
Traduzione: 
Enrico Monti
Editore: ISBN Edizioni
Anno: 2005