Forse un po’ troppo sdolcinato. Forse un po’ troppo buonista. Non dico di no. Eppure ci sono momenti di incomparabile poesia. Eppure ci si muove a compassione, così come si rimane immobilizzati, stupefatti da momenti di puro lirismo.

Così è nei passi iniziali. Momenti critici per un romanzo, quando muove appunto i primi passi nel nuovo mondo rappresentato dall’immaginario di un lettore sconosciuto, che prende in mano il romanzo 50, 100, 500 anni dopo e il racconto ritorna attuale, rivive all’istante in quel preciso momento in cui si rilegge l’incipit, sempre uguale, sempre diverso.

E «Quel bambino, di nome Ulysses Macauley» forse il vero protagonista di questa storia, più del fratello Homer «Un giorno se ne stava a guardare il buco della talpa nel giardino dietro casa, in Santa Clara Avenue a Ithaca, California».

Ulysses a Ithaca. Potrebbe già essere una clamorosa e plateale confessione d’intento poetico, se non fosse che poi la cosa scivola via (se non vogliamo considerare le avventure del bambino Ulisse, di quattro anni, una proiezione analogica delle avventure dell’eroe omerico), per essere lievemente accennata in seguito, quando una signorina di buona famiglia sottolinea la coincidenza: «Ulysses» esclama Diana, la fidanzata del Capo Telegrafista «Senti che nome appropriato! Ulysses a Ithaca». Ma semplicemente il padre di Ulysses, l’ha chiamato così proprio perché di Ithaca, più semplice di quanto possa sembrare.

Perché non sempre bisogna andare a cercare significati metaletterari e diegetici dove non ci sono. Non tutto è metafora e allegoria. A volte le cose sono così e basta. Lo scrittore ambienta un racconto a Ithaca e decide che un personaggio chiamerà il figlio Ulysses. Punto. Una cosa simpatica, che non deve per forza smuovere tutta una serie di significati altri. Da Omero alla Batrachomyomachia o dal Ciclo troiano a Quinto Smirneo, da Ditti Cretese, passando per Joyce, fino ai giorni nostri in cui La guerra di Troia non si farà.

(Si potrebbe scrivere un intero saggio solo sui nomi dei personaggi. Un capitolo intero per la scelta di William Faulkner che in L’urlo e il furore chiama due personaggi (un maschio e una femmina) con lo stesso nome. Quentin).

Ma veniamo a questi estatici momenti di puro lirismo. Quando la prosaicità del divenire romanzesco si sospende in un’estasi di pura bellezza.

«Sua madre era in cortile, gettava becchime ai polli. Aveva visto il figlio correre, saltellare, inciampare e volare per terra. Lui era arrivato tranquillo e sicuro, buttando un occhio al cesto delle uova di gallina accanto a lei. Si fermò un istante, poi prese un uovo e lo porse a sua madre con cura estrema. Voleva esprimerle qualcosa che un adulto non saprebbe immaginare e un bambino non saprebbe descrivere».

Una frase che da sola vale tutto il romanzo. Che potresti scrivere il libro peggiore del mondo, pazzo e sconclusionato, indifferente all’unità di tempo e di spazio, indisponente verso le più basilari regole grammaticali, logico-sintattiche. Eppure, quella semplice frase lo redimerebbe e lo renderebbe un romanzo migliore. Proprio così. Una semplice frase. Datemi una frase del genere e vi scriverò uno dei romanzi più belli e intensi della letteratura mondiale. Per fortuna non serve. È già stato fatto, e questa è la pazza e sconclusionata recensione di quel semplice romanzo…

Che dire, da qui si susseguono continui momenti d’estasi. Perché i membri della famiglia Macauley sono gente semplice. Con un loro personale sguardo disincantato, gettato indifferentemente sulle cose e sulle persone e un sorriso ‘alla Macauley’; un sorriso gentile, saggio, un po’ enigmatico che dà il buongiorno a tutte le cose del creato.

Ma veniamo al capitolo 11: Il naso umano.

Nell’ora di storia Homer Macauley si lancia in una lunga disquisizione sul naso. Un vero e proprio breve saggio di ‘nasofisiognomonia’. Un trattato declamato oralmente nel quale, partendo dagli assiri, Homer disquisisce del fatto che i nasi non sono fatti solamente per respirare o per aver freddo (alla punta del naso appunto) ma anche per riportare i segni della storia.

Ad esempio gli Ittiti ebbero il sopravvento sugli altri popoli per via del naso prominente e a becco. Ne esce una nuova e originale visione della storia, simile alla Nasea  di Annibal Caro, in cui bisogna per forza annoverare anche Publio Ovidio Nasone, sommo poeta e Nabucodonosor II, mitico re di Babilonia. Una lunga tirata del naso simile a quella del libro I scena IV del Cyrano de Bergerac e un’allegoria del naso stesso simile al Naso dei Racconti di San Pietroburgo di Gogol.

Un brano che non avrebbe sfigurato, presumo, tra i trattati compulsati dal padre di Tristram Shandy, allo scopo di analizzare l’evidente influenza che i nasi esercitano sul destino dell’uomo. Così come pensava lo stesso Pascal, secondo il quale se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della terra.

Bisogna infatti considerare, sugli esempi dei nasi di Cesare e di Napoleone, come gli eroi abbiano sempre un naso proporzionato alla grandezza delle loro gloriose imprese (così da indennizzare i nasoni diciamo, mentre per far contento il naso è spesso sufficiente ficcarlo negli affari altrui), prendendo a prestito argomenti anche dalle opere di Americo Scarlatti, grande psicologo del naso e di H-J Bué, fautore della teoria secondo la quale il naso, caratteristica dominante dell’umanità (infatti tutti ne abbiamo uno), meglio di qualsiasi altro tratto esprima e fors’anche contenga l’anima…

Capitolo divertente ma che esula completamente dal resto del racconto. Più che una lezione è un breve momento di ricreazione.

Per il resto il romanzo è composto da brevi scene di vita cittadina. Mentre dall’ufficio del telegrafo dove lavora Homer arrivano continuamente telegrammi dal fronte, che informano della scomparsa di giovani reclute della Seconda Guerra Mondiale.

Così, anche su questa tranquilla cittadina degli Stati Uniti d’America, la morte aleggia in sogno sulla città. Simile a un dipinto di Chagal, simile ai quattro cavalieri dell’Apocalisse che solcano i cieli in nome della storia. Ma è solo un incubo di Homer, in cui sale in cielo in bicicletta per tentare di battere il messaggero della morte, sbucato da una nuvola nera.

Mentre l’allenatore di atletica cerca di fargli capire che non può andarsene per i cieli come se portasse nel cestino ET. «E che me ne importa della gravità» gli urla Homer in sogno «Che me ne frega delle medie statistiche, della domanda e dell’offerta, o di qualsiasi altra legge? Non puoi fermarmi! Per me puoi trasformarti in un verme, in un rottame, arrugginire – non ho tempo da perdere con te». Così, non si possono fermare i sogni, come nei romanzi tutto è possibile e buonanotte ai sognatori!

William Saroyan
La commedia umana
The human comedy
Traduzione di Claudia Tarolo e Marco Zapparoli
Marcos y Marcos, 2010