Il libro disperso di oggi non è Il segreto di Joe Gould di Joseph Mitchell, ma è Una storia orale del nostro tempo, il libro che Joe Gould non ha mai scritto.
Joe Gould riteneva che la storia non si tramandi attraverso i documenti di un archivio o le pagine dei giornali; i documenti ufficiali delle varie istituzioni e ministeri o le svariate e variegate pezze d’appoggio pervenuteci negli anni. Secondo Gould ogni individuo è testimone del suo tempo ed esprime lo spirito del tempo. La Storia risiede nell’oralità e si dispiega attraverso di essa.
Non bisogna ricercare il senso della Storia nel patto firmato da Molotov e Ribbentrop a Mosca il 23 agosto del 1939 o nel trattato di Camp David siglato, davanti al Presidente Jimmy Carter, da Sadat e Begin. Lo spirito del tempo si evince più facilmente attraverso il chiacchiericcio di due donne delle pulizie appoggiate ai loro scopettoni, davanti a un bagno pubblico o nelle battute, piene di doppisensi e di sottointesi, che si scambiano il cameriere e la cassiera a fine turno.
Del resto Joe Gould era un grande frequentatore di bar. La sua dieta consisteva nel caffè che viene offerto nei Drugstore americani e nel Ketchup che viene lasciato sui tavoli delle tavole calde. Oggi sarebbe un assiduo frequentatore di Sturbucks. Gould passava il tempo in questi luoghi cercando di scroccare un pasto o una bevuta e nel frattempo annotava puntigliosamente tutto ciò che sentiva su dei quadernetti consunti. Quella che redigeva era La storia orale del nostro tempo.
Balzac aspirava a equiparare il romanzo alla storia, per questo, in Piccole miserie della vita coniugale, afferma che «il romanzo è la storia privata delle nazioni». Ma Joe Gould volle spingersi ancora oltre e fare della vita privata e delle conversazioni quotidiane, delle confessioni che accattoni e ubriaconi gli confidavano, delle vite raccontate dai passanti, composte dalle cose più infime e personali, voleva distillare da questo calderone incandescente e ancora fumante, non una storia romanzata, ma la storia tout court.
Una notte riuscì a stare per sei o sette ore nel separé di un bar-rosticceria della Third Avenue ad ascoltare il racconto della vita di una vecchia ungherese brilla, che un tempo aveva fatto la tenutaria e la trafficante di droga e a quel tempo cucinava la minestra in un ospedale municipale. Joe Gould ascoltava e scriveva. Quando era troppo ubriaco per scrivere, ascoltava e basta e grazie alla sua memoria abnorme, capace di tenere a mente una storia per giorni e giorni, la trascriveva parola per parola, anche se lunga e sconclusionata.
Nella Storia orale Gould mette solo cose che ha visto e sentito di persona. La sua opera è composta di conversazioni, riportate fedelmente o riassunte. Sotteso c’è un criterio storiografico da non sottovalutare, in questa società liquida, che è quello di consolidare e solidificare il presente, come fosse un dado, per trarne l’essenza e carpire il nostro fugit irreparabile tempus.
Da qui il tentativo di una Storia orale e questa la sua missione:
«Ciò che la gente dice è storia. Quello che un tempo pensavamo fosse storia – re e regine, trattati, invenzioni, grandi battaglie, decapitazioni, Cesare, Napoleone, Ponzio Pilato, Colombo, William Jennings Bryan – è solo storia ufficiale, in gran parte falsa. Io scriverò la storia alla buona delle moltitudini in maniche di camicia – quello che hanno da dire sul lavoro, sull’amore, sul vitto, sui bagordi, sui guai, sugli affanni –, oppure perirò nello sforzo».
Per un quarto di secolo Gould è stato una celebrità nei caffè, nelle trattorie e nelle topaie del Greenwich Village di NY. Tutti sapevano della sua grande opera; work in progress che cresceva giorno per giorno a dismisura. Tutti lo conoscevano anche come Professor Gabbiano, perché aveva imparato la lingua di quegli uccelli e ogni tanto emetteva dei potenti garriti, anche se nel bar non c’era nessun gabbiano che potesse rispondergli a tono.
È proprio in uno di questi bar che lo incontra il giornalista Joseph Mitchell e ne tratteggia i due ritratti che compongono uno dei capolavori del new journalism. Quando Mitchell incontra Gould sono già ventisei anni che quest’ultimo lavora a “un libro informe e assai misterioso” e l’assillo di quest’opera è la causa principale della sua vita, vissuta più da vero e proprio clochard, che da bohémien.
«Gould è ossessionato dal timore di morire prima di aver portato a termine la prima stesura della Storia orale. È già lunga come undici Bibbie. Gould calcola che il manoscritto comprenda nove milioni di parole, tutte scritte per esteso. Non è escluso che si tratti dell’opera inedita più lunga che esista. Gould scrive su quaderni da cinque centesimi, di quelli che i bambini usano a scuola, e la Storia orale, comprese le note, ne occupa già duecentosettanta, tutti sgualciti, sudici e macchiati di caffè, di unto e di birra. Con la penna stilografica, Gould riempie entrambe le facciate di ogni pagina, senza mai lasciare margini; scrive male, e centinaia di migliaia di parole può decifrarle solo lui. Non è mai riuscito a destare l’interesse di un editore per la Storia Orale. In passato ne ha portate intere bracciate in quattordici diverse redazioni».
Purtroppo la Storia Orale di Joe Gould non ci è mai pervenuta. È andata distrutta nei suoi pellegrinaggi e nei continui cambi di residenza di un individuo che viveva ai limiti dell’indigenza, sospinto avanti nella vita da un sogno. Quello che ci rimane, degna conseguenza di una tale utopia, è il racconto orale che lui stesso ne fece a un giornalista, che ci ha riportato la sua storia.
Joseph Mitchell
Il segreto di Joe Gould
Professor Sea Gull – Joe Gould’s Secret
Traduzione di Gaspare Bona
Adelphi, 1994