Nabokov che scrive di Gogol’. Come immergersi in una lettura-miraggio che salva dal piattume estivo. Dalla posizione orizzontale dei corpi sul lettino, ci si verticalizza verso una prosa estatica, stimolante e affascinante.

“Il revisore”, “Anime morte” e Il cappotto“, queste le tre opere del celebre Nikolaj Gogol’ che Vladimir Nabokov esamina in questo libro-rivelazione ripubblicato da Adelphi nel 2014 (la prima edizione risale al 1944).

Chi è Gogol’? Un fabbricante di impressioni. Vuoi per il suo aspetto tetro, la salute cagionevole, la pigrizia, che lo hanno portato a isolarsi a Pietroburgo prima, in Europa dopo, lo scrittore ucraino ha lasciato che il simbolismo della sua scrittura si impossessasse, negli anni, anche della sua vita.

“Il simbolismo, con lui, assumeva un aspetto fisiologico, nella fattispecie – ottico. Simbolici erano anche i borbottii dei passanti, questa volta con effetto auditivo inteso a rendere la febbrile solitudine di un pover’uomo in mezzo a una folla opulenta. Gogol’ e soltanto Gogol’ parlava da solo camminando, ma il monologo era echeggiato e moltiplicato dalle ombre della sua mente”

Un falsario di emozioni ben ammaestrato dai primi anni dell’età giovanile. Quando decise di lasciare Pietroburgo per recarsi in Germania, scrisse alla madre una lettera incomprensibile per chiedere del denaro, inventando l’esistenza di una donna di cui si era follemente innamorato.

“La fuga febbrile era solo il primo stadio dell’oscura mania di persecuzione ravvisata dagli studiosi inclini alla diagnosi psichiatrica nella sua abnorme propensione a viaggiare. I pochi dati reali che abbiamo su questo primo viaggio ci mostrano Gogol’ al suo meglio, e cioè Gogol’ che usa l’immaginazione per tessere inganni complessi e gratuiti”.

Un mercante di storie. Altro che scrittore di denuncia della realtà sociale della Russia dell’Ottocento. Nabokov sottolinea come Gogol’ sia spesso stato interpretato come uno scrittore politico, quando quello al quale auspicava era di “curare le anime sofferenti infondendo in esse un senso di armonia e di pace”.

Gogol’ scriveva per gli altri, ma in particolar modo per se stesso. Nabokov rimarca più volte come la linfa vitale di Gogol’ fosse la ricerca di ispirazione, non l’ispirazione stessa; ecco perché il bisogno incessante di viaggiare per nutrirsi di idee, anche se stare in movimento gli impediva di scrivere. La sua strategia sembrava non funzionare.

“… Egli perdeva ogni traccia di talento ogni qualvolta cercava di scrivere nella rotonda calligrafia della tradizione letteraria e di trattare idee razionali in modo logico. Quando, come nel suo immortale cappotto, si lasciava andare davvero, bighellonando felicemente sull’orlo del suo abisso privato, diventava il più grande artista mai prodotto dalla Russia”.

Nabokov non si spreca nel raccontare la trama delle tre opere, se non in forma di breve riassunto nelle note di fine capitolo. Riportando soltanto alcuni paragrafi tradotti dal russo da lui stesso, con allusioni più o meno marcate alle pessime traduzioni in inglese dell’epoca. La verità è che Nabokov non si aspetta di coinvolgere il lettore che di Gogol’ non ha mai sentito parlare, quanto di stupire il russofilo e di indurlo a pensare che di Gogol’ non ha capito proprio niente…

Parlando del cappotto, Nabokov sottolinea che la sua genialità risiede nel fatto che, per assurdità, possa essere capito soltanto dal lettore “creativo”, ovvero da colui che non si aspetta né un libro impegnativo, né una lettura ironica.

Ed è proprio così. Il romanzo finisce e neanche te ne rendi conto. Stai ancora pensando al sarto che, a metà trama, vede Akaki Akakevic allontanarsi con fare zelante per le vie di Pietroburgo indossando il cappotto.

Nabokov spiega come alcune scene gogoliane atrofizzino la mente del lettore perché presentano una distorsione, sia di immagine che di stile, che rispecchia l’alterazione della vita stessa.

“C’è qualcosa che proprio non va, e tutti gli uomini sono dei pazzi mansueti impegnati a seguire ciò che a loro sembra assai importante, mentre una forza assurdamente logica li tiene lì a perseverare nei loro futili impegni – ecco il vero messaggio del racconto”.

Vogliamo citare Le anime morte? E citiamole. Cicikov, paragonato al diavolo dallo stesso Nabokov, ci trascina nel viaggio che attraversa la malmessa campagna russa, in un’atmosfera quasi carontiana. La trama è molto più originale rispetto a quella di altre opere di Gogol’, ma la vera rivoluzione avviene nel campo del linguaggio: una ricerca parsimoniosa di vocaboli, metafore, similitudini per descrivere i personaggi, marginali solo all’apparenza, che il nostro Cicikov-Lucifero incontra nel corso del romanzo.

“Siamo di fronte a un fenomeno stupefacente per cui mere forme discorsive generano direttamente creature vive”.

Gli amanti dell’opera ricorderanno senz’altro la descrizione del tenente di Rjazan’ che si prova gli stivali nuovi nel cuore della notte. Una comparsa breve ma che rimane impressa nella mente del lettore, come un’istantanea in grado di dare un senso di continuità alla fissità della quiete notturna.

“Più volte si era avvicinato al letto per toglierseli e coricarsi, ma non ce la faceva proprio: gli stivali erano davvero ben cuciti, e lui continuò ancora a lungo a sollevare il piede e contemplare il tacco fiero, applicato a meraviglia”.

È stata proprio una deliziosa scoperta, questo libricino dell’Adelphi.

… Una riscoperta, la grandezza di Nabokov.

Una sicurezza, la pazzia di Gogol’.

Buona estate, lettori!