“La prima cosa che ci insegna la lettura è come stare da soli”, scrive Jonathan Franzen in uno dei quattordici saggi della raccolta intitolata “Stare da soli”, in Italia tradotta da Silvia Pareschi per Einaudi (2003).

Il volume affronta le tematiche che alienano l’uomo americano moderno e in particolare la paura di affrontare la solitudine, di ritrovarsi a giocare a poker con i propri pensieri privi della capacità di bluffare.

Quello che risulta interessante quando si nomina la solitudine è come questo stato d’animo venga percepito dagli esseri umani e, in particolar modo, da lettori e scrittori.

Com’è ricca di contraddizioni la solitudine… Spaventa e attrae, rattrista e incuriosisce.

Siamo in un pub con degli amici e mentre ci guardiamo intorno la nostra vista viene rapita da un uomo che mangia da solo un panino e a tratti sorseggia una bionda media. È seduto composto, i gomiti non appoggiano sul tavolo, notiamo che indossa una camicia anonima color latte. Potrebbe essere un serial killer o, peggio, un marito che è appena stato dall’amante e – prima di tornare dalla moglie – si concede una pausa per riprendere le forze. Non importa. Nel suo modo di addentare il panino e masticarlo senza scomporsi c’è un non so che di umiltà che risveglia il nostro lato sensibile. Vorremmo invitarlo al nostro tavolo e conoscere la sua storia ma poi ci ripensiamo… “no, non è il caso”… È la solitudine che prima ci attira a sé e poi ci respinge come una molla invadente.

Sembra che imparare a stare da soli sia diventato un mestiere: ci vuole molta pratica prima di assimilarne bene le tecniche. Chi scrive deve imparare a maneggiare l’arte della solitudine il prima possibile se vuole esercitare quella della scrittura. Disse (attraverso una registrazione) Hemingway al suo discorso per il Nobel nel 1954:

“Scrivere, se tutto va bene, comporta a una vita fatta di solitudine. Presenziare a eventi pubblici allevia senza dubbio la solitudine dello scrittore ma non giova certo la sua produzione artistica. La sua fama aumenta e lo allontana dalla solitudine mentre il suo lavoro si deteriora. Uno scrittore che riesce a lavorare in solitudine vivrà ogni giorno come se fosse un’eternità”.

Andando indietro nel tempo Rousseau scrisse “Le mie abitudini sono attinenti alla solitudine e non agli uomini”.

E per quanto riguarda i lettori? Leggo spesso citazioni su come la lettura di un buon libro aiuti a combattere la solitudine. Nonsense!

Se apro un libro scelgo di isolarmi da tutto il resto ed entrare nel mondo delle mille domande e delle zero risposte, scelgo di lasciar fluire i pensieri senza pensare, ridere senza emettere un suono e piangere un pianto privo di lacrime.

La lettura è un viaggio che si fa da soli, per questo i lettori sono sempre meno.

La meta è però una delle più appaganti e non è altro che la gioia dello stare da soli, quella che gli inglesi chiamano “solitude”, l’opposto di loneliness, ovvero sentirsi soli.

“Un uomo può essere se stesso soltanto quando è solo. E se non ama la solitudine allora non ama neanche la libertà, perché solo quando si è soli ci si può sentire davvero liberi“, Arthur Schopenhauer.