Vi ricordate quando Dario Fo vinse il premio Nobel per la letteratura? Era il 1997. Molti criticarono l’assegnazione del premio, più che altro contestando il fatto che Fo non fosse principalmente un uomo di lettere. Più un saltimbanco magari, dell’anima sua. La motivazione spiegava che «seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere, restituendo la dignità agli oppressi». Ma al di là di questo bisogna ammettere che “Mistero Buffo” è un capolavoro assoluto e un caposaldo della letteratura italiana. E se volete riscoprire Dario Fo letterato, non avete che da leggervi questo “C’è un re pazzo in Danimarca”.

Questo tra l’altro lo sapevamo già. Voglio dire che ci fosse un re pazzo in Danimarca (e anche del marcio, mi pare). Invece no. Non si tratta di Amleto. Troppo facile. Si tratta di quel Cristiano VII già protagonista di un altro romanzo di successo. “Il medico di corte” di Per Olov Enquist, un piccolo gioiello letterario a suo modo. E Dario Fo ripercorre proprio quella storia, scompaginando la narrazione e disseminando vari punti di vista, così che Cristiano VII, il re pazzo, ne esca come in un quadro di Picasso, ritratto da tutti gli angoli visuali, contemporaneamente.

Leggendo questo romanzo diaristico, forse per la forza visiva, forse per la leggerezza della narrazione, sorgono alla vista, alla guisa di tremolanti miraggi, delle scene di alcuni film storici, in costume. Penso alle brevi, apodittiche scene di “Barry Lindon” di Kubrick. All’ironia di un giovanissimo John Malkovich nelle “Dangerous Liaisons” di Stephen Frears. Alle inquadrature che sono quadri d’epoca e alle musiche e alla trama geometrica di un romanzo poliziesco, con tanto di indizi visivi, de “I misteri del giardino di Compton House” di Peter Greenaway.

L’impianto narrativo utilizzato da Dario Fo è molto particolare. Parte infatti da un celebre titolo di Alberto Savinio, “Narrate, uomini, la vostra storia”. E dal fatto che dal XV secolo in poi, in tutta Europa, fra gli uomini che avevano pratica di lettere, era d’uso tenere un proprio diario. Così ci sono giunte testimonianze di gente comune, ma anche da personaggi storici spesso famosi, maschi e femmine. E da questo fa narrare la storia a staffetta, attingendola dai diari dei vari protagonisti.

Inizia infatti a narrare il principe stesso, futuro re Cristiano VII. Poi è la volta della sua promessa sposa, la quindicenne Carolina Matilde di Hannover, venuta da oltre Manica a conoscere il suo futuro marito. Ma per un breve periodo, solo qualche incontro sporadico, perché non si accorgesse della pazzia del re. Della sua testa calda. Che i medici di corte, i dottoroni in medicina, vorrebbero trapanargli per fargli uscire i fumi che costipano il suo cervello.

Così si dipana la storia. Di narratore in narratore. Passando dalla testimonianza dell’amico di bisbocce del re, il conte Valdemar; agli strilli e agli articoli delle gazzette di Copenaghen del 1770; fino al diario dello stesso medico di corte, Struensee, che avrà un ruolo determinante nella storia del romanzo, come nella storia della Danimarca.

C’è una scena celebre nel secondo libro del Don Chisciotte, nella quale coloro che incontrano il cavaliere e il suo scudiero li riconoscono come i celebri personaggi del primo libro. La medesima scena e teatralità, con una certa aria di metaletteratura, non poteva certo mancare in un romanzo di Dario Fo. Infatti Cristiano VII e Matilde discutono sulle differenze tra la loro storia, che stanno vivendo, e quella resa celebre dall’Amleto di Shakespeare: «Se conosci la trama di quel racconto saprai certamente che questo Amleto è un personaggio che tu potresti ben interpretare visto che nel racconto si trasforma da saggio lucido in folle disperato». «Già – osserva il re – ma spero che la nostra sia una commedia gioiosa e non assomigli per niente, soprattutto nel finale, all’opera di quel pessimista del suo autore». Ecco la preghiera che ogni personaggio rivolge al proprio autore, mentre s’incammina tra le righe della storia, verso le pagine finali, ancora ignaro di recitare in una commedia o di essere invece protagonista di una tragedia.

In una recente intervista Dario Fo ha affermato che: «La pazzia è soprattutto contro il luogo comune, la banalità, l’ovvio, il risaputo. E soprattutto lo spostare la dimensione del pensare a se stessi, ai propri interessi, è la più grande follia che esista. Cancellare quella condizione per cui Io è il principio e il punto focale, questa cosa oscena, questo egoismo che soltanto la follia può distruggere per sostituirla con una società in cui c’è la gioia di stare insieme e di superare senza violenza le situazioni più drammatiche». Ecco il principio della società democratica. Ecco l’esaltazione di questo strano re e della sua follia creativa.

Perché infine il romanzo ci lascia sulla soglia di una grande rivoluzione. La rivoluzione francese che cambia la storia di un popolo e dell’intera umanità, i cui effetti si riverberano fino ai giorni nostri. La storia narrata in questo romanzo non è infatti che la storia dei prodromi di quell’avvenimento epocale, di come un giovane sovrano illuminato, con la forza della ragione, ritenuta presunta pazzia, rappresenti invece la nuova intelligenza che avanza.

Così accade di nuovo, racconta Fo in questo periodo di oscurantismo e di fondamentalismi, ciò che secondo alcune versioni bibliche accadde nel Paradiso Terrestre, quando Adamo ed Eva furono posti davanti a una scelta. E dopo che passarono un giorno e un notte, per poter decidere, decisero per tutta la futura umanità che «l’albero che scegliamo è quello della conoscenza e del sapere».

Dario Fo
C’è un re pazzo in Danimarca
Editore Chiarelettere
Anno 2015