Devo ammettere che ci ho messo un bel po’ di tempo prima di prendere in mano questo libro. Temevo di trovarmi di fronte al solito manuale dell’anziano professore di liceo in pensione, che argomentasse pedissequamente di come il congiuntivo sia sempre più soppiantato dall’indicativo imperfetto o dal presente. E da lì una interminabile discesa lungo le banalità dei nuovi barbarismi fatti di momentini, piuttosto che, assolutamente sì o no, per concludere che non ci sono più le mezze stagioni.

Niente di tutto ciò.

Questo libro di Massimo Roscia è una vera epifania del pensiero. Denso di citazioni e di cultura. Costellato di momenti in cui l’intelligenza si disvela nella sua purezza quasi matematica. Sovraffollato di termini aulici, quanto spesso desueti, ma perfettamente pertinenti, in una ricerca semantica lessicale attenta e precipua. Ecco sto scrivendo come lui.

Ma è impossibile. Roscia è inimitabile. Perché la sua non è solo una scrittura densa e controllata. È anche fresca, scorrevole e godibile. In un mix del tutto imprevedibile e dosato in modo da rendere la lettura leggera e divertente. Perché oltre alla perfezione del mezzo che adopera, c’è l’interesse per il contenuto che esprime. Non cerca di turlupinare¹ il lettore intontendolo di parole.

I capitoli sono introdotti da citazioni, tra il gioco e l’erudizione, di Asclepiade di Mirlea, Partenio di Nicea, Eutichio Proclo, Cratele di Mallo ecc. ecc. Tra le righe numerose onomatopeiche che ricordano il Pascoli, il tutto in un guazzabuglio linguistico che rende Massimo Roscia un James Joyce de noialtri. Magari non proprio quello più estremo del Finnegans wake. Ma comunque un giocoso parolaio alla Gadda.

Erudizione che non si accontenta di punteggiare e accompagnare la narrazione. Ma che strabordante fuoriesce magmatica dal testo in numerose note a piè di pagina. Come solo il primo Arbasino e l’ultimo DFW. In continui rimandi che approfondiscono ciò che nel testo è solo accennato o citato.

Tutto ciò per creare un romanzo molto originale, che ha le sfumature del giallo. Chi ha ucciso l’assessore alla cultura? Ma, soprattutto, chi salverà la grammatica? Un intreccio che si dipana borgesianamente su molteplici piani narrativi creando una storia paradossale e al tempo stesso divertente.

I cinque bizzarri personaggi principali sono surreali quanto credibili, resi a tutto tondo con la vivacità di una lingua frizzante. Il loro intento è infatti quello di reagire all’imbarbarimento della Lingua, di combattere in nome della Grammatica. Creare una diga che protegga l’italiano dai continui strappi alla regola.

Ecco quello che unisce in questa rocambolesca² avventura, Dionisio e i suoi sodali: un analista sensoriale, un bibliotecario, un dattiloscopista della Polizia e un professore di letteratura sospeso dall’insegnamento a tempo indeterminato.

Un libro da leggere insomma. Assolutamente sì. Ecco. Per riprovare quel brivido intellettuale che talvolta coglie qualcuno, al di sopra della massa, nel leggere alcune pagine difficili, quanto preziose, di un Gadda o di un Manganelli. Pagine come quelle di Roscia, che nei lenti preliminari della sua Lingua perfetta, tendono al raggiungimento di un orgasmo intellettuale.

¹da Turlupin, nome d’arte di Henri Le Grand, attore teatrale francese considerato uno dei maggiori comédien della sua epoca. Turlupinades erano detti gli scherzi e le freddure (ma anche i giochi di parole e gli equivoci che ne derivavano), così come turlupiner voleva dire beffare.

²da Rocambole, personaggio immaginario protagonista di diversi romanzi dello scrittore francese Ponson du Terrail.

Massimo Roscia
La strage dei congiuntivi
ἐxòrma, 2014