Quando leggo Julio Cortázar penso a Silvina Ocampo. Quando leggo Lontana o Circe penso molto a Silvina Ocampo.

C’è quella parte di letteratura sudamericana che riesce a creare un mondo realistico in cui tutto è possibile. In cui accadono miracoli puerili. Ma con naturalezza, con grazia. Realismo magico direte. Surrealismo quotidiano direi. Capacità di vedere quel lato oscuro che è forse il più luminoso (e numinoso?) delle cose. Di sentire le segrete, intime vibrazioni degli esseri.

E in questa rubrica avrei voluto parlare di Bestiario o di Finzioni, che sono però capolavori acclarati. Non certo ‘libri dispersi’. Allora parliamo di Autobiografia di Irene, che insieme ai due antecedenti crea come un ideale trittico.

Avendo citato Lontana di Cortázar, bisognarerebbe parlare anche di Casa di zucchero della Ocampo, che si delinea sullo stesso tema del ‘doppio’. E che tra l’altro ha un attacco molto borgesiano (solo Danilo Kiš nell’Enciclopedia dei morti riesce a essere più borgesiano di Borges): «una moneta con l’effigie cancellata, una macchia d’inchiostro, la luna vista attraverso due vetri, le iniziali del suo nome incise sul tronco di un cedro».

Ma questo racconto non è presente nel libro che presentiamo, bensì nell’antologia che curò Italo Calvino per l’Einaudi, edita con il titolo di Porfiria (Torino, 1973). Cosa ce lo racconti a fare allora, direte. Non lo so, in effetti…

…forse anche perché in quella raccolta c’è un altro racconto, Visioni, in cui all’improvviso, quasi avulso dal contesto del racconto, compare un periodo che è come poesia. Un esempio di alchemica trasmutazione delle cose in altre cose, della realtà in sogno (o incubo). Simile a quei momenti di dormiveglia o di delirio, in cui i suoni e i rumori reali si trasformano in immagini e in storie oniriche:

«I rumori accumulano le loro perverse storie attorno a me. Cos’è quelle sega che stride senza sosta, dalle prime luci del mattino? Sminuzza esseri umani? Trita le loro ossa fino a trasformarle in sabbia? Con questi materiali adesso costruiscono le case? E quel rumore, simile ad acqua in ebollizione, che sale dagli scantinati e dal pianterreno? Sono labbra che pregano o sono caldaie dell’inferno che preparano liquidi bollenti per gli infedeli? Ricordo di avere cantato nel coro di una lontana cappella. In una clinica? Come un ronzio di mosche erano le voci. Saranno le stesse? E quel ruggito da belve che fa la gente radunata nei corridoi, in che cosa si trasformerà? In mostri desolati oppure in una carovana di uomini con dei costumi improvvisati fatti di brandelli di lenzuoli o di asciugamani umidi, che si dirigono verso il deserto, portando provviste immangiabili e fetide. Ci sono tanti giorni di carnevale quando non è carnevale!».

Punto.

E a capo:

Autobiografia di Irene contiene cinque racconti. E l’intera raccolta è pervasa da una certa idea di metempsicosi e di contrappasso.

L’impostore, forse il suo racconto più celebre, rappresenta quasi un romanzo breve ancora sul tema del ‘doppio’. Immerso in un’atmosfera gotica che lo avvicina fraternamente al William Wilson.

Poi ci sono Epitaffio romano, un breve dramma della gelosia tra Flavia e Claudio Emilio, ambientato nell’Antica Roma, con tre possibili finali. Un testo molto lirico…

…seguito da La rete, in cui una farfalla si ribella alla sua aguzzina, vendicandosi delle ferite inflitte. Quasi un thriller psicologico.

Frammenti del libro invisibile contiene alcuni stralci dal libro di un profeta che rivela la vita nell’al di là. Prima descrivendola ai suoi discepoli e poi, una volta che sono passati a miglior vita e hanno raggiunto il luogo loro descritto, questi lo narrano a loro volta. Si tratta di un luogo in cui ritroveremo tutto ciò che abbiamo avuto in vita:

«Sono quasi morto ma sto pensando. Sarò morto e continuerò a pensare. Il cielo e l’inferno si compongono di tutti gli oggetti, le sensazioni o i pensieri che gli uomini hanno avuto sulla terra. Quegli oggetti, quei pensieri, quelle sensazioni determineranno l’avvenire di quel luogo infinito».

Autobiografia di Irene, ultimo testo che dà il titolo a questa raccolta di racconti, è un racconto ciclico. Si dipana sulle pagine come un nastro di Moebius. È la storia di una veggente che spesso viene accusata, per la sua prescienza, di causare ciò che prevede. Una vita triste, incompresa, che termina con l’incontro con uno straniero che lei già immagina che scriverà la sua storia. Che è ovviamente questo racconto stesso.

Infine ricorda anche Le rovine circolari di Borges, perché ci sono innumerevoli rimandi e citazioni tra loro e con loro il marito di Silvina, Alfonso Bioy Casares. Non a caso insieme curarono l’Antologia della letteratura fantastica. O era Victoria Ocampo?

Scusate. Ci si confonde tra sogno e realtà. Tra biografia romanzata e verità inverosimili. Tra una vita fitta di una tentacolare trama che costantemente ci inventiamo e piccoli fatterelli quotidiani che passo passo ci conducono a compiere il nostro destino. Tutto si fonde e si confonde. Tutto diventa Letteratura.

Letteratura che ancora non sappiamo se essere un modo per pre-ordinare il Caos o l’ultimo, l’estremo tentativo della vita di sfuggire ad ogni classificazione…

Insomma, per concludere, un piccolo, magico, indispensabile libercolo inutile, molto agile (come tutti i libri della collana La memoria di Sellerio), da portarsi nella pochette per i momenti di tedio e di smarrimento, per ancorarci con spensieratezza e leggerezza alla vita, con questa quotidiana, necessaria dose di irrealtà.

Silvina Ocampo
Autobiografia di Irene
Autobiografía de Irene
Traduzione di Angelo Morino
Sellerio, 2000