Erano anni oramai che non leggevo un ‘capolavoro assoluto’. E poi finalmente, recentemente, eccolo qui. E ogni volta che mi capita di ritrovare un ‘libro disperso’, penso a quanti ancora ce ne saranno che attendono solo di essere riscoperti e tratti in salvo. Abbandonati in polverose biblioteche, in vecchie edizioni che nessuno ristampa più e nessuno richiede. Per poi, per un’altra volta, essere ripresi e riletti. Tornare alla vita nella memoria di un lettore. Resuscitare antichi sentimenti e immagini racchiuse tra le pagine del libro. Per poi, silenziosamente, scivolare di nuovo nell’oblio.
La scoperta di “In culo al mondo” di António Lobo Antunes la dobbiamo ovviamente ad Antonio Tabucchi. Così come gli dobbiamo l’importazione di Pessoa in Italia e di tanti altri scrittori. Portoghesi, brasiliani, ma non solo.
Ma partiamo dall’inizio. L’incipit di questo romanzo si può paragonare ai due più grandi incipit della letteratura latinoamericana. “Cent’anni di solitudine”, ovviamente. Quando il colonnello Aureliano Buendía, davanti al plotone di esecuzione si ricorda di quando in un remoto pomeriggio suo padre l’aveva condotto a conoscere il ghiaccio. E l’incipit di “Paradiso” di José Lezama Lima. Quattordici righe che iniziano con Baldovina che di notte accudisce il bambino e termina con le lanterne delle ronde che si trasformano in un mostro errante che si getta nelle pozzanghere, mettendo in fuga gli scarabei.
Nell’incipit di questo romanzo di Antunes, siamo invece allo zoo, dove appare un essere favoloso. «Quello che più mi piaceva allo zoo era la pista di pattinaggio sotto gli alberi, e il professore negro bello e dritto che scivolava all’indietro sul cemento in ellissi lente senza muovere neanche un muscolo, circondato da bambine dalle gonne corte e dagli stivaletti bianchi che, se avessero parlato, di sicuro avrebbero rivelato voci di tulle come quelle che negli aeroporti annunciano la partenza degli aerei, sillabe di cotone che si dissolvono negli orecchi come lische di caramella nella conchiglia del palato».
Proprio così. La cifra stilistica di Antunes è una barocca sovrabbondanza di metafore liriche. Lui lavora in ellissi, in lente circonvoluzioni, simile all’aquila che circumnaviga la preda in cerchi sempre più stretti, si avvicina a spirale alla definizione più stringente. Alla analogia apparentemente più illogica, che accomuna due esseri inavvicinabili, che infine inaspettatamente creano una chimerica congiunzione perfetta. Solo grazie a queste poetiche corrispondenze, di baudelairiana memoria, Antunes riesce a esprimere concetti crudi, particolari disgustosi, di quando fu gettato in culo al mondo. A combattere in Angola la guerra coloniale del Portogallo di Salazar.
Solo così si riesce a mantenere un equilibrio. Sospeso tra un viaggio al termine della notte (una notte passata in un bar a raccontare a una donna conosciuta quella sera, la crudeltà della guerra e il fallimento della sua vita da cui nasce il suo riscatto letterario) e la magia barocca e visionaria di cent’anni di solitudine (passati dall’abbandono della moglie e della figlia, per cui non gli rimane che affogare nell’alcol e affondare in avventure di una notte). Il tutto con un lirismo perfetto. Paragonabile solo alla prosa poetica di due insigni maestri. Penso al Bruno Schulz delle “Botteghe color cannella”. Penso al Danilo Kiš di “Dolori precoci”.
Ma forse penso troppo.
Ed eccole queste due anime del libro che si fondono inscindibilmente. La crudezza della guerra. Il personaggio che dice «io» nel libro viene inviato nella veste di medico militare in Angola. E le sue rimembranze sono affollate di cadaveri di giovani militari che poco prima giocavano a carte con i commilitoni, mentre ora perdono le viscere distesi su freddi tavoli operatori. Il soba, un tempo rispettato capo del villaggio, ora cencioso cuce a macchina le divise di questo esercito straniero. «Manteneva la postura altera delle principesse in esilio, per le quali gli orologi camminano all’indietro, segnando delle ore che sono già state». Mentre le ragazze del villaggio sono costrette a prostituirsi e nella stessa capanna, le nonne fingono di dormire nel buio.
Il tutto espresso con un realismo spesso crudele.
Mentre dall’altra parte questo libro contiene un lirismo incantevole. Una prosa incredibilmente musicale, che assomiglia alla lieve musica dell’orchestrina del Titanic. Il bar stesso, nel quale il protagonista racconta la propria esistenza, lentamente sta affondando. «Alle due del mattino, quando i corpi cominciano a spostarsi come tergicristalli, quando il bar è un Titanic che fa naufragio e le bocche silenziose intonano inni privi di suono, aprendosi e chiudendosi come le labbra tumefatte dei pesci». E altre analogie che sorprendono. Come le signore del Movimento National Feminino che, «sedute al tavolo del brigadiere, mangiavano la minestra con la punta delle labbra nello stesso modo in cui i malati di emorroidi si accomodano sul bordo dei sofà, stampando sui tovaglioli di carta cuoricini di rossetto».
Proprio così. Tra confessioni e anatemi. Perché bisogna raccontare tutto il buio della notte, con brevi sprazzi e lampi di luce, per poter rivedere l’alba. «La seconda bottiglia di vodka mi dà una lucidità talmente insopportabile che se lei non ha niente in contrario preferisco passare alla luce ambrata del cognac, che tinge la mia mediocrità interiore con il color lilla di un’angosciosa solitudine, il che, per lo meno in parte, mi giustifica e mi assolve. A lei non succede lo stesso? Non ha mai provato il desiderio di vomitare se stessa?».
Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat, – Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!
Antonio Lobo Antunes
In culo al mondo
Titolo originale: Os Cus di Judas
Traduzione di Maria José de Lancastre
Prima edizione Einaudi 1996
Ristampa Feltrinelli 2014