Questo è un libro meteora. Uno di quei libri che appaiono e scompaiono all’improvviso. E se non fai a tempo a notarlo. È già andato, è già remainders e non più ristampato.

È, o sarebbe più corretto dire era, un libro minuto, della collana EST de Il Saggiatore. Casa editrice che ci ha dispensato numerosi capolavori.

Ad esempio la riedizione delle opere di Jean Genet, Notre-Dame-des-Fleurs e Il miracolo della rosa, quei capolavori altrimenti reperibili solo nelle vecchie edizioni Oscar Mondadori, con la traduzione di Caproni e censurate! O altrimenti in lingua originale, ça va sans dire.

Oppure i primi due volumi della pentalogia del grande Lawrence Durrell, dal titolo Il quintetto di Avignone. Che voleva bissare il grande successo dell’immortale Quartetto d’Alessandria. Comunque per i tipi del Saggiatore uscirono solo Monsieur nel 1999 e Livia nel 2001.

Un libro fugace insomma questo di Cecchi. Ma io riuscii ad afferarlo al volo, (e scusate la brutale e improvvisa indelicatezza della prima persona) e ne acquistai anche due copie, una delle quali regalai non so più a chi.

Ma torniamo a prendere Il caffè di Kant, che è diviso in due racconti, il primo, che dà il titolo al volume e A pranzo da Marlow.

Ma vi devo dire perché mi piace questo libro. Mi piace perché è un libro che parla di libri. Io quando parlo di libri ne parlo citando altri libri. E trovare un libro che parla di libri è il massimo, alla fine si dovrebbe parlare solo di quel libro. Ma già sto per parlare di altri libri: dei libri di Enrique Vila-Matas, di quelli di Michele Mari, di quelli di Rodolfo Wilcock, di Paolo Albani, di Alberto Manguel, di Giuseppe Marcenaro, ecco, quelli che nei libri parlano di libri.

Comunque nel primo racconto si parla di René, che è Renato Serra. Critico letterario ‘provinciale’, apprezzato da Ezio Raimondi, Giuseppe de Robertis e Gianfranco Contini. Morì all’inizio della prima Guerra Mondiale sul Podgora, dove trovò la morte anche Scipio Slataper e dove fu decimata un’intera generazione.

Di recente è stato definitivamente sdoganato da Enzo Turolla, che gli dedicò un intenso corso universitario (un po’ con quel fare proprio anche di Rolando Damiani, più divagando che altro. Forse parlò poco o niente di Serra, ma molto di Kipling, di Silvio D’Arzo e di come Casa d’altri sia il miglior racconto italiano del ‘900, di Pesci rossi e di Note azzurre, di Trucioli e di Frantumi, di Pizzuto, dell’incontro tra un ipocondriaco Leopardi e un balbuziente Manzoni in un gabinetto a Firenze, il Gabinetto Vieusseux, di Stuparich e di Michelstaedter, di come i classici italiani siano le tre corone: Dante Petrarca Boccaccio; Tasso e Ariosto; Leopardi Manzoni Alfieri e stop, eccetera eccetera).

Il caffè di Kant, alternando la narrazione a riflessioni sull’opera di Thomas De Quincey (Manganelli in Angosce di stile definisce il suo nome “lievemente improbabile”, “nobilmente mistificatorio”: «è un nome ‘rotondo’, che si pronuncia un po’ troppo felicemente, un nome al vocativo, qualcosa come Gabriele D’Annunzio, o don Ramon del Valle-Inclan; nomi così fatti vanno tenuti d’occhio, i nostri sordi cognomi da marciapiede si ribellano. Non sono certo – continua Manganelli – che quel ‘De’ fosse assolutamente autentico e fededegno, ma mi rifiuto di verificare; in ogni caso, sarebbe anche peggio: quell’uomo amava il suo cognome, forse per amor suo sarebbe stato capace di compiere un falso, in breve, un ‘delitto’. Che De Quincey fosse dotato di inclinazioni criminali è ovvio: questo appartiene alla sua figura magica e maligna di scrittore»), ci mostra René alle prese con le sue superstizioni volontarie che lo trascinano ad un suicidio in forma di menzogna.

«René, aveva convissuto durante tutta la sua breve vita con il suicidio. Quest’uomo è un campione della superstizione volontaria, di un autoinganno che induce a una doppia vita, quella dell’abbandono all’esistenza e quella del progetto. Progettarsi equivale a consegnarsi alla superstizione, a fare di sé un personaggio che si muove in un mondo immaginario e perciò perfetto e definitivo; René non aveva capito che il progetto non consiste nel proiettarsi nel futuro, ma nel diventare quel che si è. Si tratta di una conquista recente, alla quale tuttavia hanno contribuito René e altri come lui».

Sicuramente più eloquente del Siddharta (che nel 2012 compiva novant’anni! E non sentirli). Dove la menzogna è la Rettorica, Persuasione è essere se stessi, l’io autentico. Perché un altro di quelli come lui, che hanno contribuito a questa conquista recente, non può non essere che il già citato Carlo Michelstaedter.

«Nel verbo essere al futuro c’è la storia di quelle superstizioni volontarie di cui parla il nostro René. C’è anche la spiegazione di quel suicidio in forma di menzogna consistente nel vivere facendosi immagini di futuro felice. Ciò conferma l’ipotesi che De Quincey non abbia preso in considerazione che il peggior suicidio, la più bella delle belle arti, è la condanna a vita, a una vita da trascorrere fino all’ultimo nel mentire a se stessi».

Questo anche perché De Quincey è l’autore del miglior titolo della storia della letteratura: L’assassinio come una delle belle arti. Trovatemene uno migliore. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello? forse. O L’insostenibile leggerezza dell’essere? a volte la fortuna di un romanzo è già nel titolo. E tutto il resto potrebbe essere silenzio.

Comunque sia, per concludere, nel secondo racconto del libro si citano, in ordine di apparizione: la Bibbia, l’Iliade, Gide, Montaigne, Kafka, Octavio Paz, Philip K. Dick, Hemingway, Strauss, Alban Berg, Bach, Kundera, Conrad, Musil, Tolstoj, Montale, Parmenide, Nietzsche, Starobinski, Emilio Cecchi, Salgari, Lagercrantz, Orson Welles, Pinocchio, D.H. Lawrence, Swift, Cervantes, Eichmann, Borges, Cardoso, Puccini, Schönberg, Eliot, la Hepburn, Saba, Verdi, D’Annunzio, Calvino, Chatwin, Rilke, Melville, Haydn, Turner.

Fate voi.

Ottavio Cecchi
Il caffè di Kant
Editore: Il Saggiatore (Collana Est)
Anno: 1997