Il primo Dio di Emanuel Carnevali vede la luce solo nel 1978, grazie alla sorellastra Maria Pia che, insieme a Gabriel Cacho Millet, raccolse e ordinò e tradusse le sue carte, almeno quelle rimaste dal rogo compiuto nel 1944 dalla proprietaria della locanda dove lo scrittore aveva vissuto i suoi ultimi anni (intervallati da ricoveri in ospedale), per paura che le trovassero i tedeschi.

Eppure nonostante quella pubblicazione, per i tipi dell’Adelphi, in un volume che raccoglie oltre al romanzo autobiografico, Il primo Dio, anche una silloge delle sue poesie e racconti, saggi critici e testimonianze, né questo autore ha mai raggiunto il successo presso il grande pubblico, né si è ricavato un posto nel pantheon della letteratura, rimanendo racchiuso, come spesso accade ai poeti maledetti, nella sua nicchia.

Questo è dovuto probabilmente al suo essere rimasto a metà strada tra due culture: di origine italiana, ma autore in lingua inglese, in quella che Carlo Linati descrive come una “trapiantazione spirituale”; mentre Luigi Ballerini parla di «questa voce specialissima e appassionata che contrae nel suo doppio esilio negativo (esilio dalla provenienza e dalla destinazione) l’ira e la disperazione espressiva del Novecento sia italiano sia americano».

Ancora Linati dichiara «di sentir battere nell’onda della sua prosa inglese il polso della nostra razza, il ritmo inconfondibile del nostro sentimento» e lo stesso Carnevali ammetterà di non saper scrivere in italiano in quanto «la lingua è una creatura, sangue nervi muscoli: bisogna conoscerla» e la sua aspirazione sarà sempre quella di essere considerato “an American Poet”.

Emanuel Carnevali approda negli Stati Uniti da Bologna ancora ragazzo, a soli sedici anni, e passa la sua esperienza americana tra camere ammobiliate e lavori precari, dal lavapiatti al cameriere, come racconterà ne Il primo Dio.

Nutre una profonda avversione per l’America laboriosa che rimane un enigma, i grattacieli di New York lo lasciano indifferente (come «candele votive sulla punta della supina Manhattan» accese al Dio della Trinità: Denaro, Fama e Successo), mentre sente il peso della solitudine e della desolazione.

È straordinario pensare che Carnevali restò in America solo otto anni, vi arrivò infatti nel 1914 e ritornò in Italia l’11 settembre del 1922, a causa di un’encefalite letargica. Da quel momento passò la vita tra ospedali e locande, restando sempre in contatto epistolare con gli amici americani che erano tra i migliori letterati del suo tempo: Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson e Carl Sandburg.

Carnevali era quindi osannato dall’avanguardia letteraria americana dell’epoca e al tempo stesso era in contatto con intellettuali italiani del calibro di Giovanni Papini, Benedetto Croce e del già citato Carlo Linati, in una fitta corrispondenza che verrà in parte pubblicata in Italia nel 1980 in un volume, curato sempre da Gabriel Cacho Millet, intitolato Voglio disturbare l’America.

Come poeta si può tranquillamente accostare a Dino Campana, mentre come prosatore a un John Fante, ma più amaro e sofferente, per come espone in prima persona la sua esperienza vitale in quell’America che «raccoglie i ribelli, gli infelici, i miserabili; la terra delle imprese puerili e magnifiche – l’America che è un’orfana indipendente e arrogante, pazza e sublime, senza una tradizione che la guidi, e corre a precipizio in una corsa folle che chiama progresso. America tremendamente laboriosa, costruttrice di città meccaniche. Ma nella fretta dimentica di amare, abbandona e perde la gentilezza».

Il titolo, Il primo Dio, deriva dalla sua posizione religiosa. Carnevali non crede in Dio, in nessun Dio. È comunque affascinato dalla figura di Cristo: «La religione ha sempre torto, Cristo ha sempre ragione». Ma al dogma del Cristianesimo preferisce una sorta di personalissimo umanesimo:

«Urlavo a squarciagola la mia pazzesca formula della divinità, ripetendo che io ero, per me stesso e per tutti gli uomini, il Primo Dio, l’Unico Dio, che ero un carico di spezie giunto improvvisamente in porto. Ma ero l’unico apostolo della mia religione».

Uno scrittore riconosciuto dagli altri scrittori del suo tempo, eppure in vita pubblicò un solo libro e poi fu velocemente dimenticato. Fu Robert McAlmon, nell’ambiente degli americani a Parigi (e primo editore di Hemingway in Francia), a pubblicare nel 1925 il primo libro di Carnevali, A Hurried Man, tradotto da Fazi nel 2005 con il titolo Racconti di un uomo che ha fretta, e contenente racconti, saggi e poesie.

Ecco cosa scrive William Carlos Williams nella sua autobiografia a questo proposito:

«McAlmon pubblicò il libro di Em, che nessuno ricorda più, uno dei migliori esempi di – di che cosa? Di un libro, un libro che è tutto di un uomo, un uomo giovane, superbamente vivo. Condannato. Quando penso a ciò che si pubblica e si legge e si loda e, regolarmente, si premia, mentre un libro così resta sepolto sotto un mucchio di cadaveri, giuro di non voler più aver successo, sono disgustato, tornano le vecchie tentazioni. Che cos’altro può fare un libro per un uomo?»

Poi ci sono le sue poesie, alcune atterriscono, piene di visioni esaltanti alla Walt Whitman, nelle quali si cade in un pessimismo esistenziale; mentre altre sono quiete come la superficie immobile di un lago in una fresca giornata primaverile da cui ogni tanto guizza un verso lucente come il colpo di coda di una carpa che sale verso il cielo:

«Io sono incerto come un ramo curvo di salice
che fa cenni all’acqua.

Il terremoto ha dita piccole;
lo puoi capire
dalla caduta di minuscoli pezzi di intonaco.

I cipressi mostrano il cammino alla morte.

Certe famiglie hanno odore di rancido, schifoso.

Gli affetti in certe famiglie
sono come uomini che cercano calore
in un letamaio.

Le cose in queste famiglie
sono come serpenti che salgono
su un albero morto»

Il critico francese Michaud scrisse che «sotto a ciascuno dei suoi versi c’è un uomo che soffre: in lui c’è un realismo non soltanto pittoresco, ma umano e commosso. Mentre gli Imagisti saccheggiavano i musei e le biblioteche, Carnevali cercava la sua poesia nei ghetti e nelle taverne di New York e illuminava gli aspetti luridi e triviali della vita con una chiarità tutta sua, affascinante e buona» .

Emanuel Carnevali, in sintesi: un uomo e un poeta disperato, troppo a lungo dimenticato, che ogni tanto esce dall’oblio, come è accaduto recentemente grazie alla piccola ma lungimirante casa editrice D Editore, che ha ripubblicato Il primo Dio in una bella edizione, filologicamente molto corretta, che inaugura la collana Strade Maestre, curata da Valerio Valentini.

Si tratta di un’edizione del tutto nuova, curata da un team di traduttori e di ricercatori sotto la supervisione del direttore editoriale Emmanuele Pilia, che vuole emendare certe ingenuità e arcaismi inseriti dalla sorellastra nella traduzione classica adottata da Adelphi. D Editore ha trovato anche altri capitoli de Il primo Dio, espulsi dall’edizione di Maria Pia Carnevali probabilmente per motivi familiari.

Insomma, un libro veramente disperso che sta per rivedere finalmente la luce in Italia nella sua interezza, per rendere giustizia a un grande autore italo-americano troppo a lungo dimenticato.

Emanuel Carnevali
Il primo Dio
The First God
D Editore, 2017