A volte delle fatalità rendono impossibile portare a termine un’opera. Ed ecco che questa da potenziale, abbozzata, pensata o sognata, a volte addirittura scritta e poi perduta, si trasforma in un libro disperso.

Penso al visitatore inatteso proveniente dalla vicina cittadina di Porlock, che suonando il campanello interrompe la trascrizione del sogno di Kubla Khan e del suo palazzo a Xanadu, di Coleridge (da allora con “uomo di Porlock” o semplicemente “Porlock”, si allude a un intruso indesiderato, un seccatore che distrugge l’ispirazione creativa). Così il Kubla Khan rimane un quasi poema di una cinquantina di versi e la visione di Coleridge perduta per sempre.

Penso ai Canti orfici di Dino Campana, affidati nel 1913 ad Ardengo Soffici, perché questi li perdesse e al poeta non restò che riscrivere l’intera raccolta di poesie, verso per verso (tra l’altro dopo il ritrovamento del testo si poté constatare che quello riscritto a memoria da Campana era pressoché identico). La versione perduta fu ritrovata in un armadio che custodiva le carte di Soffici solo nel 1971 e stampata nel 1973.

In Festa Mobile Hemingway racconta che nel 1921 Hadley Richardson, la sua prima moglie, aveva messo in una valigia tutti i suoi manoscritti per portarglieli a Losanna, ma alla Gare de Lyon di Parigi perse la valigia. «Ci aveva messo dentro gli originali, i dattiloscritti e le copie, tutti fra copertine di carta da pacchi». Chi avrà trovato quella valigia? Avrà letto quello che c’era scritto? Che fine avranno fatto quei fogli?

E a proposito di valigie. Una delle più famose è quella che ha custodito per decenni i suoi tesori, per poi farci scoprire, una volta aperta, una grande scrittrice, completamente dimenticata dopo la guerra. Mi riferisco alla valigia conservata per anni da Denise Epstein e mai aperta. Quando si decise a farlo vi scoprì un manoscritto della madre, vergato con un inchiostro dal colore azzurro. Era il romanzo incompiuto Suite Francese di Irène Némirovsky, che permise di riscoprire una scrittrice straordinaria, finita nel dimenticatoio.

Il fuoco è nemico della carta. Gogol’ era intenzionato a scrivere un grande poema sulla Russia in tre parti, sull’impronta della Divina Commedia. La prima parte di quest’opera incompiuta è Le anime morte. In seguito Gogol’ scrisse anche la seconda parte, che una volta completata decise di dare alle fiamme e di cui ci rimangono solo i primi capitoli. Ecco quindi un altro libro disperso, andato in fumo per sempre.

Quanti libri sono scomparsi per sempre nelle pire delle opere messe all’indice? Un’intera letteratura, quella Maya, è stata data alle fiamme dal vescovo Diego de Landa nel 1562. L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha mandato in fumo un’infinità di manoscritti antichi, secondo le fonti da 40mila a 700mila testi. Ma anche nei roghi nazisti sono andati distrutti per sempre numerose opere. Una di queste è il libro di Ernst Haffner, Fratelli di sangue, un solo esemplare si è salvato ed è stata riscoperto di recente e ripubblicato anche in Italia, da Fazi Editore.

Se Max Brod avesse accondisceso alle ultime volontà dell’amico Kafka, non ci sarebbero pervenute le sue opere e tutta la letteratura moderna sarebbe differente. Ma allora quanti Kafka abbiamo perduto? Quanti testamenti non sono stati traditi e hanno dato in pasto alle fiamme dei capolavori? Quanti “uomini di Porlock” hanno importunato autori; quante valigie non sono state ancora aperte o sono state smarrite per sempre; quanti armadi contengono libri dispersi?

Mallarmé Manet
Ritratto di Mallarmé di Edouard Manet (1876)

Ma veniamo al Libro per antonomasia e alla vicenda dell’uomo che voleva scrivere Il Libro.

È il libro “più disperso di tutti”, e sul quale più si è fantasticato e scritto nella storia della letteratura. È il sogno di Mallarmé, che sognava di scrivere il Libro.

Stéphan Mallarmé morì all’età di 56 anni per una crisi di soffocamento avvenuta la mattina del 9 settembre 1898. Durante la notte dell’8 settembre, quando uno spasmo della glottide quasi lo soffocava, scrisse un biglietto per la moglie Marie e la figlia Geneviève, una sorta di testamento nel quale le invitava a bruciare il “mucchio semisecolare” dei suoi appunti, note, abbozzi.

«Mère, Vève, il terribile spasmo di soffocazione appena sofferto può ripresentarsi durante la notte e sopraffarmi. Allora non vi stupirà che pensi al mucchio semisecolare delle mie note, che diventerà per voi un grande imbarazzo; visto che non un solo foglietto può essere utilizzato. Solo io potrei cavarne fuori ciò che contiene… L’avrei fatto se gli ultimi anni non mi avessero tradito. Perciò, bruciate tutto: non c’è nessuna eredità letteraria, mie povere care. Non sottomettetelo al giudizio di qualcuno: o rifiutate ogni ingerenza curiosa o amichevole. Dite che non ci si capirebbe niente, del resto è la verità, e voi, mie povere prostrate, i soli esseri al mondo capaci di rispettare fino a questo punto tutta una vita d’artista sincero, credete che doveva essere molto bello…»

Cose che si dicono, perché la morte rende modesti. Inutile peccare di superbia alle porte del paradiso. Infatti le donne sono scettiche. Le donne di Mallarmé non gli credettero e diedero alle stampe quelle poche carte confuse e inutili che solo il loro autore poteva coerentemente ricomporre nel Libro. E dopo di lui furono in molti a provarci, ad esempio Jacques Scherer in «Le Livre» de Mallarmé. Premières recherches sur des documents inédits (Gallimard, 1957).

Invece era proprio come aveva detto il caro Stéphane.

Anche perché quelle carte disordinate non erano Il Libro, ma un coacervo di appunti e spunti su cosa dovesse essere Il Libro. Come estrarlo e modellarlo dalla pagina bianca, come il marmo. Delle maldestre ed ermetiche istruzioni per uso proprio, su quale forma doveva avere il Libro dei Libri. Mentre Il Libro era ancora allo stato di enigma.

«Le Livre, expansion totale de la lettre, doit d’elle tirer, directement, une mobilité et spacieux, par correspondances, instituer le jeu, on ne sait, qui confirme la fiction».

Il Libro, nell’idea di Mallarmé, doveva essere una sintesi di tutte le arti e di tutti i generi, al tempo stesso giornale, teatro e danza. Il Libro, costituito da fogli separati, doveva essere letto in pubblico dal suo autore, variando all’infinito le possibili combinazioni dei vari fogli volanti, seguendo un rituale quasi religioso. Il Libro doveva essere un’espressione rituale sacralizzata, un’utopia letteraria che nasce dal giornale, definito poema popolare moderno.

«le volume, malgré l’impression fixe, devient par ce jeu, mobile – de mort il devient vie».

Ci rimangono schegge di luce, bagliori nelle tenebre in un generale brancolamento nel buio. Ci rimane un balbettìo incomprensibile del grande discorso che Mallarmé aveva in mente. Il suo destino, il destino del Libro, era di non vedere mai la luce, per il sopraggiungere della morte del suo autore. Rimane l’ideale. L’esempio dello sforzo di Mallarmé e alcuni frammenti incomprensibili di ciò che poteva essere e non fu mai.

Stéphane Mallarmé
Le livre
in Poesie e Prose
Garzanti, 2005