Lo confesso. Felisberto Hernández è uno dei miei scrittori sudamericani preferiti. Eppure chi è costui? Perché non ha la fama di un Borges, di un Cortázar, di un Márquez, di un Neruda, di un Paz, di un Mutis, di chi più ne ha più ne metta?
Forse perché non s’è inserito in nessun movimento letterario. Forse perché era troppo eclettico, al punto da abbandonare la carriera di pianista per un semplice impiego d’ufficio (un banale “impiegatuccio” come Pessoa, come Kavafis, come Bartleby, come Goljadnik!), che gli permettesse di scrivere.
Dicono che non imparò mai un metodo stenografico classico. Allora ne inventò e perfezionò uno personale: da qui, seppur s’è inevitabilmente frapposta una certa distanza temporale, intravedo le stigmate del genio. E dell’indolenza. Ne fecero anche una mostra, dei suoi documenti calligrafici stenografati, inaugurata il 21 dicembre 1981, alla Biblioteca Nazionale di Montevideo. Peccato che, presumo, nessuno sappia decifrarli. Questo sarebbe molto ‘felisbertiano’, ah, ah!
Alla fine andò anche lui a Parigi, a sciacquare i panni in Senna, ma non chiedetemi con quale delle sue quattro mogli. Anche perché là pare che non incontrò nessuno scrittore, a parte Jules Supervielle, e continuò a fare vita appartata.
Insomma.
Certe volte l’ondivaga fama letteraria sceglie autori minori per fargli intraprendere il luminoso cammino verso la gloria e la consacrazione, magari il Nobel, dimenticando per strada altri più meritevoli.
Beh, la storia del Nobel è un’altra storia. Una storia a parte: prendete l’albo d’oro del maggior premio letterario mondiale e spesso compulsandolo vi chiederete anche voi: chi erano costoro? Per non parlare della lunga eminente lista di coloro che il Nobel non lo vinsero mai.
Comunque.
Calvino, che ne ha curato per l’Einaudi l’unica opera tradotta in Italia, appunto la raccolta di racconti Nessuno accendeva le lampade, diceva che Felisberto Hernández è uno scrittore che non somiglia a nessuno. A nessuno degli europei e a nessuno dei latino-americani. È un “irregolare” che sfugge a ogni classificazione e inquadramento ma si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile. Sempre un po’ surreale, sempre un po’ nemmeno sopra le righe, ma fuori dai margini.
Mentre secondo Cortázar, che ripudiava il termine surrealismo (si chiedeva: «Fino a quando durerà l’assurdo magistero surrealista, stabilito da Breton prima, più tardi dai suoi eredi, e sempre e ovunque da una critica avida di etichette semplificatorie?»), l’opera di Hernández per suggestioni, coincidenze, affinità difficilmente descrivibili, è paragonabile solo all’opera di un altro grande creatore, José Lezama Lima (Paradiso è paragonabile solo a Horcynus Orca ed è anche una recherche caraibica), che si situa all’altro polo del mondo americano.
E se a Parigi avesse avuto voglia di cercare qualcuno, sicuramente non si sarebbe rivolto all’affollata chiesa del surrealismo, ma avrebbe cercato Alfred Jarry e Raymond Russell.
La cifra dei suoi racconti è lo spaesamento. Non c’è “fantastico” nei racconti di Hernández, ma un effetto di straniamento dovuto all’incontro di personaggi introversi, monomaniaci, fedeli alla propria particolare e stravagante visione delle cose.
Racconti molto autobiografici se vogliamo, prevalentemente narrati in prima persona, con un totale abbandono a una visione che lo estranea dalle circostanze ordinarie e lo introduce (ci introduce) semplicemente in un altro ordine, in un’altra dimensione di esseri e di cose leggermente diverse e diversificate.
Nei suoi racconti si susseguono pianisti stralunati; struzzi dispettosi che ingoiano vecchi ricordi di famiglia, ma che prima o poi li restituiranno; donne che non escono di casa, ma scelgono accuratamente l’ombrellino colorato per fare un giro in giardino; nani domestici; vecchi che umiliano le bottiglie prendendole per il collo e rovesciandole a testa in giù; balconi che si suicidano crollando all’improvviso…
Hernández pubblica questi racconti nel ’47; nel ’45 Alberto Savinio scrive qualcosa di analogo: nel racconto Casa della stupidità, pubblicato nel ‘53 da Bompiani, nella raccolta Tutta la vita, una statua di marmo che sostiene il balcone di un palazzo decide di «andarsene», ben contenta di provocare in tal modo il crollo dell’edificio, giacché tra quelle mura alligna la «stupidità a tutti i piani».
…poeti che riconoscono la vita anteriore delle cose: che vedono rami dove sono gambe e vedono zanne dove sono tasti (e anche ne La pianessa di Savinio, la signorina Fufù, dopo essersi fatta sedurre da «un pianoforte a coda e lungo come una balena, basso sulle zampe tarchiate e tozze», ne avverte la virile presenza con profondo turbamento, salvo poi trovarsi di fronte a una clamorosa agnizione…)
Hernández scrisse anche una Falsa spiegazione dei miei racconti, alla stregua del Comment j’ai écrit certains de mes livres di Raymond Roussel (che non a caso viene quindi citato due volte in questa breve recensione), in cui paragona il racconto a una pianta che cresceva dentro di lui e concludeva dicendo che una cosa è sicura: «non so come scrivo i miei racconti, perché ognuno ha la sua propria vita, strana e indipendente. Ma so, anche, che vivono litigando continuamente con la coscienza, per evitare gli estranei che arrivano raccomandati da lei».
P.s. dopo l’ormai introvabile edizione Einaudi del 1974, s’è recentemente aggiunta la nuova edizione per i tipi de La Nuova Frontiera, con traduzione di Francesca Lazzarato, chapeau, anche se la copertina non è tra le più azzeccate. Sempre La Nuova Frontiera quest’anno ha pubblicato Le Ortensie, un’altra raccolta di racconti. Di altre opere di Hernández tradotte in italiano non c’è traccia, mentre oltralpe abbiamo Les Œuvres Completès per l’editore Seuil.
P.s.2 online si trova la tesi di Valentina Bortolamedi, Tradurre il fantastico, con una breve biografia (pare che alla sua morte fosse talmente grasso che il suo corpo fu faticosamente calato dalla finestra, una fine degna di un suo racconto) e l’analisi dell’opera di Felisberto, oltre alla traduzione di tre racconti inediti in Italia.
Autore: Felisberto Hernández
Titolo: Nessuno accendeva le lampade
Titolo originale: Nadie encendía las lámparas
Traduzione: Francesca Lazzarato
Editore: La Nuova Frontiera
Anno: 2012
1 commento
Credo che ti troverò un posticino tra Destouches e Bukowsky…
Complimenti vecchio mio! Forte la tua recensione!