Alcuni autori sono conosciuti per un solo libro. Magari hanno alle spalle una sterminata produzione di romanzi e racconti, ma sono passati alla storia per un solo libro. La vicenda di Edmond  Haraucourt è ancora più paradossale, perché la sua è stata una produzione abnorme di poesie e di romanzi, eppure è passato alla storia per uno solo verso.

Partire è un po’ morire.

È l’incipit della poesia La canzone dell’addio.

Canzone dell'addio

Partire è un po’ morire è l’unico verso passato alla storia di Haraucourt.

Nemmeno tanto male in fondo. Della stragrande maggioranza dei poeti, per quanto famosi in vita, non ricordiamo neppure un parola, nemmeno una rima. Da questo punto di vista Haraucourt è stato fortunato, perché questo suo verso è diventato un modo di dire, a riprova che le poesie vanno per i fatti loro, incuranti dei loro creatori.

Peccato solo che nessuno, o almeno pochi, sappiano di chi sia questo verso. Per molti, altro non è che un semplice modo di dire. Una cosa che viene in mente a chiunque debba partire. Come se facesse parte da sempre dell’immaginario collettivo. Non è che qualcuno debba per forza averlo inventato o detto per primo. Partire è un po’ morire. È così e basta. Da che mondo è mondo. E probabilmente qualcuno l’aveva già detto, prima che il poeta l’immortalasse in una poesia.

Invece no. Diamo a Haraucourt quello che è di Haraucourt.

Anche perché in vita è stato un uomo di successo, lavorando in ambito museale e divenendo infine presidente della Société des gens de lettres, dal 1920 al 1922. Mentre pare che l’indecenza e la licenziosità di certi suoi componimenti, specialmente giovanili, gli abbiano impedito di entrare nell’Académie française.

Infatti il suo esordio letterario è datato 1882, con la pubblicazione della raccolta poetica La Légende des sexes, poèmes hystérique et profanes, sotto lo pseudonimo di Sire de Chambely, il cui componimento Sonnet pointu sembra in parte anticipare i calligrammi di Guillaume Apollinaire.

Ha pubblicato numerose raccolte di poesie e romanzi, fino a Le Livre de mon chien del 1939, due anni prima di partire per sempre (perché, come disse Maurice Chevalier, «Morire è partire un po’ troppo»). Il suo poema più conosciuto, appunto Rondel de l’adieu, compare in Seul del 1890, ed è stato messo in musica da Francesco Paolo Tosti nel 1902, decretandone al tempo un enorme successo.

Purtroppo ha scritto solo per i contemporanei, i posteri si sono dimenticati di lui. Niente che dovesse passare alla storia, i suoi erano versi alla moda. Strizzava l’occhio al gusto del pubblico, un piacione a cui piaceva arringare le folle e titillarle con cose note, che le facessero andare in sollucchero, in brodo di giuggiole (magari usando espressioni ormai desuete, come queste).

Era un infaticabile scrivano, alla Bouvard e Pécuchet. Nella Bibliographie des auteurs Modernes de langues française compare con un numero considerevole di pagine, risultato di decenni di scrittura (di cui ci è rimasto un singolo verso). Una macchina scrivente, una sorta di automa della scrittura, come ha decretato nella dedica a Le Livre de mon chien:

A mon chien, machine à aimer,
hommages respectueux de son maître,
machine à écrire.

Eppure lui è contento. Ne sono sicuro.

Laggiù, tre metri sotto terra, nel cimitero di Père-Lachaise (89esima divisione), Edmond Haraucourt è contento.

È contento perché non sospetta minimamente si essere nel limbo dei poeti dimenticati e che quassù, dove noi passeggiamo amabilmente e prendiamo il caffé e l’aereo per partire verso continenti lontani. Haraucourt non sospetta che non gli fischino le orecchie per tutti i suoi versi che noi ripetiamo. Ma semplicemente perché l’unica grande verità che ha espresso è anche la cosa più semplice che ha scritto, ché insomma, come diceva lui: Partir, c’est mourir un peu…

Edmond Haraucourt
Seul
G. Charpentier Éditeur
1890