Se lo senti nominare per la prima volta, rischi di confonderlo con Allen Ginsberg. Probabilmente, per il fatto che Allan Gurganus non è poi così conosciuto, in Italia. Ed è un vero peccato.

Ieri, alla giornata conclusiva del Festival della Letteratura di Mantova, si è presentato nel cortile di Casa Mantegna con un completo di lana sintetica blu. Si confondeva con il pubblico che, intimorito dalla pioggia, correva al riparo, sotto il tendone. L’ho notato perché era l’unico che camminava come se si stesse godendo una frizzante giornata primaverile; il cappellino in tinta con il completo gli era sufficiente per non lasciarsi infastidire da qualche goccia astiosa.

Si è seduto in una delle ultime file, composto. Le mani sulle ginocchia e la schiena leggermente curva. Si guardava intorno spaesato, come è normale che sia. Non mi sembrava, però, si sentisse a disagio. Semplicemente, aspettava.

Allan Gurganus è stato paragonato ai maestri del racconto breve: Carver, Faulkner, Munro, McEwan. Nasce come pittore ma, dopo aver preso parte alla guerra del Vietnam, si è dedicato all’arte della scrittura. In Italia le sue raccolte di racconti sono pubblicate da Playground: Santo mostro (2009), Piccoli eroi (2001) e Non abbiate paura (2014).

Quando parla sembra che stia dando vita a un nuovo racconto: ogni parola è dosata e carica di significato; si rimane con facilità ipnotizzati dallo scorrere fluido del suo inglese pulito. Gurganus è uomo in grado di trasformare la risposta a una domanda in un brano di prosa poetica; non necessita di pause per pensare al termine corretto da usare, né di creare suspance tra una parola e l’altra.

I suoi racconti iniziano sempre con l’immagine della perfezione accostata alla quotidianità di un tranquillo paesino di campagna (lo scrittore stesso è originario del North Carolina). Una perfezione insolita, un po’ macabra, che ricorda la famiglia felice di Carver, quella che viveva con un pavone addomesticato e che aveva dato alla luce un figlio di un’esagerata bruttezza.

Al Festival della Letteratura, Gurganus dispensa consigli agli aspiranti scrittori, e cioè a tutto il pubblico, in grado secondo lui di narrare una storia.

“Il mondo si suddivide tra coloro che hanno avuto una guida e coloro che, purtroppo, non l’hanno avuta”.

La presenza di un mentore sembra per Gurganus uno dei requisiti per diventare un bravo narratore. E non deve per forza essere il professore universitario o quello del liceo; anche il vicino di casa, l’amico, un altro scrittore possono divenire i nostri punti di riferimento, se credono nelle nostre capacità e vedono in noi talento e bellezza.

“Incoraggio sempre i miei studenti a scrivere racconti brevi”. Gurganus, che è anche professore universitario, sostiene che prima di essere in grado di scrivere un romanzo, bisogna

“essersi fatti spezzare il cuore tre o quattro volte. È un genere che si coltiva dai quarant’anni in su”.

Parlando della sua routine, Gurganus non nasconde al pubblico di essere un uomo abitudinario: si alza alle 6,30 del mattino, beve un espresso e fa lunghe passeggiate. Poi ritorna a casa e scrive fino alle tre del pomeriggio. Mentre scrive, stacca internet e telefono, per far sì che le energie confluiscano solo nei personaggi dei suoi racconti. Gurganus sottolinea come, talvolta, i suoi personaggi si ribellino alla trama da lui progettata: un suocero o una zia che all’inizio ricoprono un ruolo marginale, spesso si ritrovano a prendere il posto del protagonista, perché dotati di maggior spessore.

Gurganus chiude la parte dell’incontro rivolta agli aspiranti scrittori con una frase che comunica, con un velo di ironia, l’importanza dell’essere pazienti e perseveranti, sia nella vita che nella scrittura:

“Se sei in grado di scrivere per quaranta minuti, prima che il resto delle persone che vivono con te si sveglino, allora sei già a metà del percorso”.