Ho scoperto le gioie della collana Filigrana di Minimum Fax quando il fidanzatino dell’epoca mi regalò “Come si scrive un giallo. Teoria e pratica della suspance” di Patricia Highsmith, con un’introduzione di Andrea Camilleri.

I volumi che compongono questa collana raccolgono consigli, considerazioni, gustose divagazioni di autori celebri e indirizzati ad aspiranti scrittori. Da Virginia Woolf, a Flannery O’ Connor, a James Joyce, passando per Jack London, Anton Cechov e Raymond Carver. Questi sono solo alcuni degli autori di cui si parla nei 59 libricini pubblicati, negli anni, dalla casa editrice.

Ma noi oggi non citeremo nessun russo, americano o inglese. Ci sbizzarriremo con i francesi, che se vengono chiamati in causa devono essere ascoltati fino in fondo. Altrimenti si offendono. “Troppe puttane! Troppo canottaggio! Da Balzac a Proust” è il titolo di uno dei libri della sopracitata collana ed è anche quello che Flaubert disse a Guy de Maupassant, rimproverandolo di godere troppo della mondanità francese.

Procediamo con ordine. Filippo D’Angelo, professore di letteratura francese e autore di “La fine dell’altro mondo” (Minimum Fax), introduce le riflessioni filosofiche dei più grandi esponenti del Simbolismo (Baudelaire), Naturalismo (Balzac, Flaubert, Zola e Maupassant), Modernismo (Proust e Gide) francese. Consigli fraterni, spesso sotto forma di lettere dal retrogusto romantico-ottocentesco, che dei giovincelli poco più che ventenni (basta, quindi, insinuare che si diventa saggi dopo i trenta, please) si scambiavano in nome dell’amore per l’arte.

“È un Baudelaire appena venticinquenne che, nel 1846, scrive i Consigli ai giovani letterati, testo fra i primi da lui pubblicati in assoluto. […] Non si tratta, dunque, di precetti dettati dall’esperienza, ma di precoci intuizioni”.

Nei Consigli, Baudelaire esorcizza i pericoli che rischiano di ostacolare la produzione dello scrittore e di minacciare la sua creatività, consigliando una costante pratica quotidiana. Non ha importanza se a coerenza e passione non segue subito il successo. La perseveranza non deve mai venir meno.

“Ogni esordio è sempre stato preceduto da altri venti esordi che loro ignorano, e ne è l’esito”.

Per Baudelaire, la routine della produzione letteraria non viene rappresentata soltanto dall’immagine dello scrittore che siede alla scrivania, ogni giorno e a una determinata ora. Il vero scrittore è colui che porta con sé la propria idea ovunque vada. Questo gli permette di meditare sul soggetto in questione e di rendere più proficuo l’incontro di carta e inchiostro.

“L’ispirazione è, nel modo più assoluto, la sorella del lavoro quotidiano”.

Nel maggio del 1857, un trentaseienne Flaubert scrive alla discepola Mademoiselle Leroyer de Chantepie una lettera dove elogia l’arte della contemplazione contro il bisogno ansiogeno, proprio del genere umano, di dover dare una definizione agli eventi che ci circondano.

“Nessun grande genio ha tratto delle conclusioni e nessun grande libro ne trae, perché è l’umanità stessa a essere sempre in marcia e a non trarne mai”.

Che avrà voluto dire Flaubert? Probabilmente, voleva far capire alla sua corrispondente che un romanzo dovrebbe avere solo il fine di raccontare, senza maturare la pretesa di esprimere un giudizio netto, che si propone come significato ultimo dell’opera.

A un ingenuo e incauto Maupassant, invece, Flaubert consiglia di non lasciare che le proprie emozioni, e in particolare la tristezza, si personifichino fino a risucchiare tutte le energie che gli sono necessarie per scrivere:

“Vivete in un inferno di merda, lo so, e vi compatisco dal profondo del cuore. Ma dalle cinque della sera alle dieci del mattino tutto il vostro tempo può essere consacrato alla musa, che è anche la miglior zoccola”.

Nella prefazione a Pierre et Jean, secondo romanzo di Guy de Maupassant, pubblicato nel 1887, l’autore si scaglia con savoir faire contro la rigidità della critica dell’epoca, poco incline a valorizzare le novità introdotte dalla scuola naturalista.

“Contestare a uno scrittore il diritto di fare un’opera poetica o realista significa volerlo forzare a modificare il suo temperamento, a rinnegare la sua originalità, e non permettergli di servirsi dell’occhio e dell’intelligenza che la natura gli ha dato”.

Anche allora, come adesso, la mancanza di creatività era motivo di angoscia per gli scrittori. Essere talentuosi non significava essere detentori di un qualsivoglia genio, ma essere in grado di descrivere il reale con originalità.

“In ogni cosa vi è alcunché d’inesplorato… La cosa più insignificante contiene un po’ di ignoto. Troviamolo. Per descrivere un fuoco che divampa e un albero in una pianura, restiamo di fronte a quel fuoco e a quell’albero finché non assomigliano a nessun altro albero e a nessun altro fuoco”.

La genuinità letteraria era un’arte che predicava anche Gide, il quale consiglia di non lasciarsi troppo abbindolare dalle lodi dei più esperti, né dalle opere altrui. Secondo Gide, prima di affinare il proprio stile, lo scrittore deve perfezionare se stesso. Allontanarsi dal branco e ritrovare la propria individualità significa però perdere il consenso del pubblico e del mercato, e questo può generare uno sconforto crescente.

“Non disperare se perdi di vista il tuo obiettivo. Persuaditi che non si arriva al capolavoro inseguendolo direttamente; ci vuole astuzia, e una certa pazienza nel trovare l’angolo di attacco”.

Nella postfazione di questo volume Filippo D’Angelo ci lascia con un  vademecum per aspiranti scrittori (e scrittrici), carico di un’ironia e un discernimento che i francesi avrebbero apprezzato. Questi i miei passaggi preferiti:

“Se ancora non hai pubblicato un libro, sappi che farlo ti rovinerà la vita, rendendoti più narcisista e paranoico di quanto già tu sia”.

 

“Ogniqualvolta avverti in te un istinto di provocazione, frenalo. Solo gli scrittori mediocri cedono al facile piacere di épater le bourgeois“.

 

“Quando si tratta di vampirizzare le vite altrui, lo scrittore non risparmia né i propri amori, né le proprie amicizie, né, tanto meno, i propri familiari”.