Immagina che ti venga chiesto quale singolo cambiamento nell’atteggiamento delle persone possa essere in grado di migliorare il destino della razza umana. Solo una sciocco risponderebbe: insegnare a leggere con una penna in mano. Questo, però, è proprio quello che penso: un gesto così semplice sarebbe in grado di apportare grandi benefici.

Nutriamo troppo rispetto per la parola stampata, e troppa poca consapevolezza del potere della parola scritta sulle nostre menti. Lasciamo che mondi interi si manifestino a noi con gran poca conoscenza delle conseguenze. Ci lasciamo sfuggire errori atroci. Ce ne freghiamo di allitterazioni, assonanze e ritmo. Ci lasciamo prendere da quelle storie, sia che siano fiction o realtà, che manipolano esplicitamente il lettore o che hanno dei finali studiati a tavolino, o che possiedono addirittura entrambe le caratteristiche; (Quest’ultima è inoltre l’ipotesi che si ripete con maggiore frequenza).

Se un libro manifesta un particolare stigma letterario – simbologia, metafore, narratore inaffidabile, punti di vista molteplici, ambiguità strutturali – siamo capaci di conferirgli immediatamente credito. Con alcune eccezioni, l’unica critica mossa verso questo tipo di scrittura è quella che, alla fine, ne elogia l’originalità, l’intelligenza e la creatività. Quello che mi ha maggiormente sorpreso quando ho iniziato a pubblicare romanzi è stato come uno scrittore riesca, in molti casi, a farla franca.

Questo riguardo inspiegabile, che sembra aver raggiunto il culmine nella seconda metà del XX secolo – quando i modernisti della generazione precedente venivano definiti i fautori dell’arduo miracolo di riuscire a conferire alla vita un senso misero – si riflette nel modo in cui ci rapportiamo con i libri. Il dorso non deve piegarsi o rompersi, non deve esserci spazio per annotazioni a margine. Ovviamente, per coloro che sono cresciuti a pane e biblioteche o libri usati (la mia copia di Browning porta il nome di una dozzina di studenti che hanno usato quel testo prima di me), questo tipo di comportamento risulta logico e sensato. Ma questa riverenza va oltre il semplice rispetto per le persone che leggeranno il libro dopo di te. Persino quando i libri li compravo, i miei genitori rimanevano scioccati quando mi beccavano piegargli il dorso per far sì che rimanesse aperto sulla scrivania.

La scrittura era diventata sacra. Prima della scrittura c’era la parola. La parola scritta su carta pregiata, se si era fortunati. La resistenza, in particolar modo dei letterati, agli e-books deriva proprio da questo senso di sacralità nei confronti di un vulnerabile vascello di carta, che può sopravvivere soltanto grazie alla nostra ossessiva devozione.

Ho capito che leggere con una penna in mano fosse un bisogno essenziale mentre osservavo i miei studenti durante le lezioni di traduzione. Gli davo due testi identici, uno nella versione inglese e un altro nella versione italiana, e loro dovevano essere in grado di riconoscere quale fosse la produzione originale. Oppure gli consegnavo un testo senza dire se fosse o meno una traduzione, aspettandomi dei loro commenti. Di nuovo, l’autorità della parola scritta e l’aura letteraria, l’entusiasmo dato dalla drammaticità dell’azione o un dialogo di particolare trasporto, impedivano loro di notare le assurdità più evidenti.

[…]

Anziché semplicemente insistere, come avevo già fatto per anni, sul fatto che dovessero stare più all’erta, ho iniziato a pensare quale potesse essere l’espediente più pratico per indurre i miei studenti a diventare dei grandi osservatori e per insegnar loro a difendersi da quei segnali nascosti in grado di cambiare il punto di interesse del lettore, senza che questo se ne accorga. Ho iniziato a pensare al modo in cui io stesso leggo, a quale sia la molla, oltre alle parole stampate su carta, che ci induce a leggere.

Provate con questo esperimento, gli dissi, da oggi dovrete avere sempre una penna in mano mentre leggete, non vicino a voi o sul tavolo, ma nella vostra mano, pronta per essere usata. Scrivete sempre tre o quattro commenti per pagina, almeno uno di questi deve essere critico, persino aggressivo. Mettete un punto di domanda su ogni passaggio che vi risulta sospetto. Sottolineate quello che è davvero di vostro gradimento. Prendetevi la libertà di scrivere “Meraviglioso”, ma anche “Non credo a una parola” o “cazzate”.

Una penna non è una bacchetta magica. La capacità critica non si acquisisce dal nulla. È incredibile, però, come molti studenti abbiano incrementato le loro prestazioni grazie a questo semplice stratagemma. C’è qualcosa di rapace, crudele, in una penna sospesa sopra alle pagine di un libro. Come un falco che si aggira su un campo e che è alla ricerca di qualcosa di vulnerabile. È un piacere cadere in picchiata e trafiggere la vittima con un morso violento. Il solo fatto di avere una mano pronta all’azione cambia il nostro modo di rapportarci verso il testo. Non siamo più passivi ascoltatori di un monologo, ma attivi partecipanti di un dialogo. Gli studenti noteranno che con una penna in mano leggeranno più lentamente, ma allo stesso tempo noteranno che il testo diventerà più denso e maggiormente interessante, soltanto perché ora potranno trarre piacere nel reagire a quei testi che prima non si sentivano all’altezza di segnare […]

Risfogliando le pagine che abbiamo appena letto e sottolineato, o riprendendo in mano un romanzo che abbiamo letto mesi, o forse anni, addietro, siamo in grado di toccare con mano la nostra opinione sulle idee dell’autore. Dove lui ha dichiarato questo, io ho risposto con questo commento, quando lui ha toccato questo punto, la mia reazione è stata impulsiva e così via.

[…] Cos’è l’io, se non la posizione che assumiamo abitualmente nei confronti di altri io? In questi giorni, andando a rileggere i libri che mi sono rimasti dagli anni dell’università, ho notato tre o quattro diversi tipi di commenti, alcuni scritti con penne di colori differenti. Ho sentito che le mie opinioni erano cambiate, io ero cambiato.

A questo proposito si potrebbe aggiungere che l’opportunità di commentare degli articoli online sia una gran cosa. Lo è. Non condivido il punto di vista di alcuni colleghi scrittori sul fatto che coloro che commentano, criticano e si lamentano siano esagerati. Trovo spesso dei commenti sottostanti un articolo (qualche volta, ahimè, anche i miei stessi articoli), che risultano più brillanti e più documentati dell’articolo stesso. Tutto questo è entusiasmante, anche quando possa sembrare mortificante.

Tuttavia, commentare un articolo online non è la stessa cosa di porre delle note a margine di un libro acquistato. Online uno esprime la propria opinione e la condivide con altri lettori. Esiste il rischio di cadere in commenti faziosi o di usare lo spazio come un escamotage per farsi notare. Spesso il dibattito nascente si allontana vertiginosamente dall’argomento dell’articolo. Quando poi si pubblica un commento è difficile che si scorra indietro con il mouse per leggere i commenti precedenti, o comunque non come quando si ritorna a sfogliare, dopo anni, Hemingway, Svevo, Katherine Masfield o Elsa Morante, realizzando quanto sia davvero affascinante vedere quello che si era o non si era in grado di cogliere in passato. Come quando si criticava un pensiero che oggi risulta perfettamente chiaro, come quando si elogiavano dei dettagli che oggi si sospetta siano artificiali. Che cosa proverò nel rileggere i commenti che scriverò oggi?

Alcuni scrittori temono che questo tipo di approccio ci privi di quei momenti in cui il lettore cade in balia dell’incantesimo dello scrittore, in cui soccombe con piacere allo stile; come quando improvvisamente sembra che gli stili di Proust, Woolf, Beckett o Bernhard siano, almeno per il momento, gli unici in grado di attrarci; questi sono i momenti che sembrano essere i più eccitanti della nostra esperienza di lettori.

È vero, privarsi di tutto questo sarebbe altrettanto duro. Ma se è giusto che gli scrittori ci coinvolgano in questo modo, lasciamo che lavorino sodo per meritarselo. Desistiamo dall’incantesimo per un po’, o per lo meno finché non capiamo in che tipo di avventura stiamo per imbarcarci. Perché l’accettazione irrazionale e passiva della visione del mondo di altri può soltanto incatenare e ostacolare la nostra crescita personale, senza lasciar spazio all’azione propositiva. A volta sembra che la società soffra quando si immerge in quello stato confusionale dato dalle storie che le sono state inculcate.

Non era proprio questo quello di cui si lamentava Cervantes quando ha iniziato a scrivere Don Chisciotte? È meglio leggere un libro misero con diffidenza, piuttosto che leggerne uno valido e cadere in uno stato di irrazionale adorazione.

L’articolo originale è stato scritto da Tim Parks – professore associato di letteratura e traduzione allo IULM di Milano e autore del diario di viaggio “Italian Ways” – e pubblicato su The New York Review of Books il 3 dicembre, 2014.

Didascalia foto: Annotazioni dalla copia di David Foster Wallace del romanzo di C. S. Lewis Le Cronache di Narnia. Il leone, la strega e l’armadio.