Nel IV libro delle Metamorfosi il poeta latino Ovidio narra le dolorose vicissitudini d’amore di Apollo, il dio del Sole che, prima di tutti, vede ogni cosa accaduta sulla terra.
Nemmeno colui che tutto governa con la sua luce siderale, il Sole, fu risparmiato dall’amore.
Queste le parole con cui al verso 169 prende avvio la storia. Avendo rivelato al marito Vulcano l’adulterio della moglie Venere con il dio Marte, Apollo suscitò l’ira della dea dell’amore, che ordì un piano per vendicarsi: tutte le attenzioni del Sole sarebbero state rivolte a Leucotoe, suscitando l’invidia delle molte amanti del dio.
E adesso a cosa ti servono, o figlio di Iperione, il tuo aspetto splendente e i tuoi raggi luminosi? Ecco che proprio tu che bruci la terra con il tuo fuoco, ardi di fuoco sconosciuto; proprio tu che devi controllare ogni cosa, contempli soltanto Leucotoe e concentri su lei sola quegli sguardi che dovresti distribuire su tutto il mondo.
Il Sole si leva prima del dovuto, tramonta più tardi, protrae le ore invernali e sconvolge l’ordine naturale solo per poter contemplare Leucotoe. Il tormento del suo spirito innamorato si irradia con la sua luce, che per amore impallidisce, diminuendo il proprio splendore come eclissandosi, e sparisce, terrorizzando gli uomini. La ninfa Clizia, che fino ad allora era stata l’amore esclusivo del dio, soffre per il tradimento e continua a desiderare i caldi abbracci del Sole, ma invano.
Mentre i cavalli di Apollo si cibavano di ambrosia nei pascoli sotto i cieli dell’Esperia, riposando le membra affaticate per il molto lavoro quotidiano, il dio penetrò nelle stanze dell’amata Leucotoe assumendo l’aspetto della madre di lei. Fatte allontanare le ancelle, il dio si rivelò alla fanciulla, che fu vinta dal fulgore del suo aspetto e subì la violenza senza lamentarsi.
Spinta dal rancore Clizia diffuse la notizia dell’accaduto, che giunse al padre di Leucotoe. Adirato, fece seppellire viva la figlia, sordo alle preghiere di lei. I raggi del sole non bastarono a ridare calore vitale al corpo della fanciulla, che per volere del dio si trasformò in una pianta di incenso: così Leucotoe sarebbe ancora stata in grado di raggiungere il cielo.
Apollo interruppe ogni rapporto con Clizia, che in preda al dolore cominciò a consumarsi. Rifiutava ogni compagnia, non bevve e non mangiò per nove giorni, se non lacrime e rugiada; stava seduta tutto il giorno sulla terra nuda, seguendo il viaggio del Sole attraverso l’arcata del cielo, volgendo il capo.
Si racconta che le sue membra rimasero attaccate al suolo e che, per il sopravvenire di un pallore livido, parte del colore del suo corpo si convertì in quello dell’erba esangue. Le restò però una zona rossa, e un fiore molto simile alla rosa le coprì il viso. Così essa, pur trattenuta dalle radici, segue ruotando il movimento del suo Sole e anche mutata serba l’amore che aveva per lui.
Ovidio non descrive con precisione il fiore in cui Clizia si trasformò, e non ne fa il nome. Si limita a chiarire che si tratta di un fiore viola, variamente identificato con l’eliotropio e con la calendula. Fu la tradizione successiva, in particolare pittorica, a identificare Clizia con il girasole.
Nel 1688 il pittore francese Charles de La Fosse raffigurò Clizia su uno scoglio, in preda alla disperazione. Apollo sta per tramontare in lontananza e lei lo osserva addolorata. Il conforto delle oceanine non basta, e alle spalle della fanciulla è già sbocciato un girasole, segno della trasformazione imminente.
La Clizia del pittore tedesco simbolista Louis Welden Hawkins (1849-1910) cela invece il dolore dietro una più spiccata sensualità. È raffigurata di spalle, con il corpo nudo, i lunghi capelli biondi lascivamente sciolti e adorni di rose, mentre porta maliziosamente un dito alla bocca. Dietro di lei dei girasoli, che rivelano taciti la ferita d’amore e la solitudine.
Sofferenza e dolce sensualità si ritrovano invece nella Clizia della pittrice inglese Evelyn de Morgan (1887), influenzata dai pittori Rinascimentali e in particolare da Botticelli. Raffigurata nel momento della trasformazione, la fanciulla cede in una dolce torsione del corpo alla ineludibile crescita dei girasoli, che la costringono a un destino di ricerca vana. Clizia non si oppone, con le mani alzate sopra la testa asseconda la trasformazione, desiderosa di seguire la luce del proprio amore che continuamente le sfugge e che con insistenza insegue, consapevole di non poterlo mai completamente raggiungere.
Traduzione di Giovanna Faranda Villa, da Ovidio, Le Metamorfosi, Bur 2010.