Analuz camminava nella via affollata, tra due ali di bancarelle, con l’andatura claudicante delle sue gambe malandate, quando avvertì un’onda investirla e attraversare tutto il suo essere. Rimase ferma, ansimante, con la bocca spalancata, si aggrappò forte al suo bastone da passeggio. Il mondo, tutto intorno, era rimasto indifferente, ma dentro di lei si era spalancata una porta pesante, chiusa e sprangata con fatica tanto tempo prima, lasciando irrompere nel suo cuore un inverno freddo.

– Signora, c’è qualcosa che non va? – chiese un ragazzo che vendeva limoni.
– La musica. – rispose Analuz, quasi sussurrando.
– Come? La musica? Quale musica? – chiese ancora il ragazzo, tendendo l’orecchio nel chiasso del mercato.
– Ta- ta, ta-ta-ta, ta-ta… È un tango – riprese la donna, cercando di scandire il ritmo con la mano libera.
– Io non riesco a sentire niente, c’è un tale rumore qui. È sicura di stare bene, signora?
– Que… quella voce. Quella voce. – balbettò Analuz.
– Oh sì, ora la sento anch’io. È il negozio di robivecchi, poco più avanti, mettono sempre su un po’ di musica. Io, ormai, non ci faccio neanche più caso. Vuole che la accompagni?

Analuz ebbe un sussulto, fece un lungo respiro e, senza rispondere, riprese il cammino, seguendo il filo che la canzone le tendeva lungo la strada. Il limonaio rimase ad osservare preoccupato l’anziana e la sua andatura incerta. Tra i mezzi giri che le anche le imponevano e i casquè, quando le gambe cedevano, sembrava quasi che ballasse, in modo grottesco, sullo stile delle note che l’avevano colpita a tradimento.

“Tornare, con la fronte appassita, le nevi del tempo hanno argentato la mia tempia…”. Ora poteva distinguere le parole, cantate da una calda voce maschile, nel tono grave, misto di piacere e rimpianto, che solo i ricordi sanno ispirare. Alla fine sparì tra le chincaglierie che ingombravano l’entrata del negozio e si arrestò di fronte ad un grammofono sul quale girava un vecchio disco.
“Vivere, con l’anima aggrappata ad un dolce ricordo che piango un’altra volta. Ho paura dell’incontro con il passato che ritorna ad affrontare la mia vita…”

– Posso aiutarla? – domandò una voce di ragazza, mentre Analuz, ipnotizzata dai giri del vinile, stringeva le labbra e volgeva gli occhi in altro tempo e un altro luogo.
– Signora? – chiese ancora la voce e una mano le sfiorò il braccio.

Analuz sollevò lo sguardo e quello che vide la riportò alla vita. Erano due ragazze sui vent’anni, di una bellezza gioiosa e penetrante, una bionda e una bruna, prodotto di un misto di razze latine, indie e nordiche che solo il suo paese poteva creare. Il paese che Analuz aveva amato per tutta la vita.

– Siete sorelle. – affermò la donna con sorprendente sicurezza.
– È vero. Come lo sa? – chiese la bionda.
– Ho un certo occhio per le facce e le somiglianze. – rispose Analuz con un leggero sorriso.
– Io mi chiamo Adelina e lei è Rosa. – disse la bruna.
– Le piace il grammofono, Analuz? È un bell’oggetto, perfettamente conservato. Risale al …
– Il grammofono non centra. È stata la canzone. Mi ha riportato alla mente un ricordo lontano, ma forse mi sbaglio, forse non era neanche quella la canzone giusta.
– Si intitola “Volver”, è un pezzo famoso, di Carlos Gardel. – disse Rosa, indicando le copertine e i numerosi ritratti del musicista appesi al muro – Come vede, qui da noi è quasi un’istituzione.
– Già, lo vedo. Quanto costa il disco?
– Veramente il disco non è in vendita, fa parte di una collezione. – rispose Adelina – È molto importante per lei?
– A dire il vero, no, almeno, non dovrebbe. Forse è meglio che rimanga lì dov’è. Dovete perdonarmi, sono solo una povera vecchia in balia dei propri fantasmi. – concluse Analuz, già sul punto di andarsene.
– Niente come la musica rimane legata agli amori del passato. – disse Rosa, con malizia – È un vecchio amore quello che la lega a “Volver”, non è vero?
– Piantala Rosa. – la apostrofò la sorella, sottovoce – Lasciala in pace.
– La prima volta che ho ascoltato questa canzone è stato l’ultimo giorno felice della mia vita. – rispose secca Analuz, voltando le spalle per uscire dal negozio.
– Aspetti – riprese Adelina – I dischi appartengono a nostro padre, è lui l’appassionato di Gardel. Se ci tiene a comprare il disco deve parlare con lui. Ecco, prenda, se vuole può semplicemente telefonare.
Sul biglietto da visita, sopra all’indirizzo e al numero di telefono, stava scritto: “Emilio Navas, restauro e vendita di oggetti di antiquariato”. Analuz si fermò sulla soglia e senza voltarsi domandò:
– Quando posso trovarlo?
– Lui viene in negozio sempre verso sera, rimane qui a lavorare per buona parte della notte.
– Si, a lavorare. – aggiunse sarcastica la sorella.
– Rosa! – la zittì Adelina.

Analuz ringraziò e si avviò con il suo passo danzante. La confusione di poco prima andava diradando, per lasciare posto ad una crescente forza d’animo, un’energia che credeva perduta per sempre, chiusa dietro la robusta porta, assieme al suo passato.
Quanto deve essere alto il volume della musica per coprire i pensieri? Quanto per riempirli del tutto? E quanto per zittire la voce della coscienza?

“Tornare”, cantava la canzone e quello era per Analuz un giorno per tornare indietro a tante cose, ad un mondo che le era sfuggito, che qualcuno, che neanche conosceva, le aveva strappato dalle mani e ora, su quelle note maledette, le veniva restituito, per chiudere un cerchio e trovare un senso laddove non c’era più speranza di trovarlo.

Prese un autobus e poi un altro, si spinse fino in periferia, in un quartiere che trovò cambiato, fagocitato com’era dalla bocca di cemento della città. Eppure, al suo occhio attento come un tempo, ogni cosa era al proprio posto, anche il vecchio amico che andava cercando. Incontrarsi di nuovo, dopo tanti anni, spiegava da solo il motivo dell’incontro, sebbene il fatto lasciasse increduli entrambi.

– Manolo, devi farmi un regalo. – disse Analuz senza convenevoli.
– Ma cosa dici Analuz?
– Hai capito benissimo. “Il” regalo. Adesso, Manolo.
– È tempo che tu metta una pietra su tante cose. Tutti dobbiamo farlo. Non è in questo modo in cui si può risolvere qualcosa.
– E in che modo allora? Con le lacrime e tante parole inutili, che nessuno ascolterà? Per ricevere delle pacche sulle spalle e qualche briciola di compassione? No, caro mio, le chiacchiere non mi guariranno. Io sono viva come allora, adesso, voglio far sentire forte la mia voce.
– Come vuoi tu. Se puoi trovare la pace, non sarò io ad impedirtelo. Che Dio ti assista Analuz.
– Se voleva assistermi, doveva farlo tanto tempo fa.

Il ritmo del tango suonava netto ed ossessivo, rimbalzava da una tempia all’altra, risvegliava, a piccole dosi, tutti i frammenti di quegli attimi terribili, quando aveva desiderato soltanto che tutto finisse, quando ogni secondo diventava un’eternità, quando aveva sognato soltanto una boccata d’aria pura e un raggio di sole della sua città, che ora scorreva libera fuori dall’autobus, mentre tornava verso il suo obiettivo.

Il cervello seppellisce il dolore dentro a fosse profonde, per evitare che ci divori, e con lui sacrifica una parte di noi stessi.  Ma soltanto i morti non tornano più dalle loro tombe, assieme al passato, anche Analuz tornava alla vita. Ogni tanto infilava una mano nella borsa e stringeva il suo regalo. Analuz era una mina inesplosa di una guerra lontana, ora era accesa di nuovo e pronta ad esplodere.

Quando arrivò al mercato, il sole era appena tramontato e la folla del pomeriggio aveva lasciato il posto ai cani e ad un mare di cartacce. La bottega di antiquario aveva la serranda abbassata per metà, una luce filtrava dall’interno, assieme all’ombra di qualcuno che si muoveva tra le anticaglie.

– Emilio Navas. – scandì con decisione Analuz.

L’uomo nella bottega si voltò a guardarla e uno dei tanti ricorsi dell’universo giunse a compimento. Era vecchio, più di Analuz, ma il suo aspetto era consunto in un modo che non aveva a che vedere con letà. I capelli erano radi, a chiazze, e dal cuoio capelluto delle orribili macchie di psoriasi scendevano sul volto rugoso e butterato. I suoi occhi velati, da due crateri scuri, guardavano il mondo con disinteresse.

– Sono io – rispose l’uomo strizzando un poco gli occhi – In cosa posso esserle utile?
– Le piace tanto Gardel. – riprese Analuz.
– Sì. È vero. Lei deve essere quella che voleva comprare il disco. Me ne hanno parlato le mie figlie. Mi dispiace, non lo vendo. Lo possiedo da troppo tempo per separarmene.
– Oh, lo so bene. Lo hai fatto ascoltare anche a me.
L’uomo la guardò aggrottando la fronte, qualcosa lo colpì, ma ostentò indifferenza.
– Ma cosa dice? Io non la conosco.
– Tutti abbiamo ascoltato la tua musica, ma nessuno è mai tornato per raccontarlo.
– Lei è pazza. Non so di cosa sta parlando. – l’uomo distolse lo sguardo e tornò ad occuparsi delle proprie faccende.
– Sei così vile da tentare di negare. – ringhiò questa volta Analuz, affondando la mano nella borsa – Non mi aspettavo altro da te. Ora sono io ad avere delle domande da farti e tu risponderai.

Emilio Navas rimase rigido di fronte al bancone, osservò la donna di fronte a lui mentre estraeva una pistola dalla borsa e, senza dire niente, prese il disco ed azionò il grammofono. Analuz riprese a parlare.

– Quante volte mi avrai chiesto se avevamo delle armi? Mille? Duemila? Ora lo sai. Non sei contento? Pezzo di merda! Non puoi ricordarti di me, certo. Non puoi ricordarti di tutti quelli che ti sei lavorato.
Ti starai chiedendo come faccio ad essere qui, oggi, viva. Come mai non ho fatto anche io un bel tuffo in mare dall’aereo. Io ero di quelli che non hanno resistito al trattamento, quelli che buttavate nel mucchio. Ero là sotto quando mi sono risvegliata. Ero là sotto quando ho riconosciuto la tua voce e ho sentito qualcuno chiamarti. “Emilio”. Solo un nome, uguale a migliaia di altri. Ho trascorso la vita a trapassare con gli occhi tutti quelli che si chiamavano come te, ma oggi, quando ho sentito la canzone, qualcosa mi ha detto che eri proprio tu.
Vorrei sapere perché mettevi sempre la musica, al massimo del volume. Eravamo il tuo passatempo, noi, volevi godertela fino in fondo. Attaccavi la musica e poi la corrente elettrica. Una canzone per ognuno. La mia era “Volver”, ed eccomi, sono tornata.

L’uomo rimase immobile, come paralizzato, ora sembrava ancora più vecchio e consunto di prima. Poi, lentamente, cominciò a muoversi e a tremare.

– Eravate delle formiche che sfidavano un gigante. Avete anche voi le vostre responsabilità. – riuscì a dire, con voce incerta.
– Responsabilità. – gli fece eco Analuz – Ci avete macellati a migliaia, nel vostro delirio di onnipotenza, lo stesso che mi ha permesso di fuggire, non so nemmeno io come, e mi parli di responsabilità. Ora hai paura, lo sento. Sei troppo codardo per non avere paura della morte.

Navas fece pochi passi lenti e si lasciò cadere su una seggiola accanto ad un tavolino, dove stava una scatola di legno. La donna con la pistola gli diede l’alt.

– Non sono armato. – disse l’uomo – Non lo sono più da tanto tempo ormai.
Aprì la scatola di legno e tirò fuori quello che gli serviva. Con gesti collaudati preparò la roba e la scaldò su un lume a petrolio, strinse il laccio e si iniettò l’oblio dritto nelle vene.
La molla del grilletto strideva sotto la spinta del finale che incombeva, inesorabile, sulla scena. In quell’istante il disco suonò l’ultimo solco.
– Prima di spararti, potrei dirti che tornerò domani, per Rosa e per Adelina, ma io non sono come te e i tuoi simili, non mi interessa il dolore degli innocenti. Ora lo so il perché della musica: ciò che non volevi sentire era l’eco delle urla, riecheggiare nel tuo mondo claustrofobico, dove soffocava la tua coscienza.
Oggi, mi basta sapere che la ragione di tutto il mio odio è più infelice di me.

Prima di andarsene, Analuz, spostò la puntina del grammofono dall’inizio e mentre la canzone riprendeva a suonare, ripose la pistola, fredda, nella borsa, voltò le spalle al passato e, a passo di tango, camminò verso la vita.
“Tornare, (…) la strada vecchia dove l’eco disse: tua è la sua vita, tuo è il suo amare, sotto lo sguardo beffardo delle stelle che con indifferenza, oggi, mi vedono tornare…”

Questo racconto è stato scritto da Massimo Basano e pubblicato per la prima volta il 12 agosto 2016 da Piego di Libri.

massimo basano Massimo Basano ha pubblicato una raccolta di racconti dal titolo “Il giorno che smisi di conoscerti”.
Sta lavorando al suo primo romanzo.