Personaggio controverso, autore precoce e geniale (Meno di zero viene pubblicato quando lui ha 21 anni, American Psycho quando ne ha 27), Bret Easton Ellis torna in libreria con Bianco (Einaudi), nella traduzione di Giuseppe Culicchia. Non è un romanzo, bensì un saggio sulla società odierna raccontato attraverso episodi autobiografici. Al centro c’è soprattutto il concetto di libertà, messo in discussione – secondo lo scrittore – da una cappa di conformismo, creata tra l’altro dalla preponderanza dei social. Preponderanza che emerge già nell’introduzione:

La sensazione che in un modo o nell’altro avrei commesso uno sbaglio per il semplice fatto di condividere ciò che pensavo a proposito di qualcosa. Tutto ciò sarebbe stato impensabile dieci anni prima – l’idea che un’opinione potesse diventare qualcosa di sbagliato – ma in una società inferocita e polarizzata c’era chi veniva blocco a causa delle proprie opinioni, e perdeva follower perché veniva percepito in modi che potevano essere inesatti (…). Ma in fin dei conti il silenzio e la sottomissione erano l’obiettivo di questo sistema.

In una lunga, non sempre letterariamente appassionante (l’ego dello scrittore travalica il racconto) ma necessaria ricostruzione dei decenni che precedono quello in cui viviamo, Easton Ellis trova gli indizi di un campo di mentalità che si fa man mano più opprimente.

A farne le spese, secondo lui, sono i giovani dell’ultima generazione, che definisce quella degli Inetti. Che sono ipersensibili al giudizio social, al numero di follower e di like raccolti. Inconsapevoli di essere entrati in un meccanismo omologante, che opprime la libertà di pensiero, la diversità di opinione, il cosiddetto politicamente scorretto:

Ci siamo abituati a recensire gli spettacoli televisivi, i ristoranti, i videogiochi, i libri, perfino i medici, e in generale diamo giudizi positivi perché nessuno vuole passare per hater (…). Ma allo stesso tempo, e in misura sempre maggiore, sono anche le corporazioni a recensire noi (…). E dato che opinioni personali e riscontri critici viaggiano in entrambe le direzioni, le persone hanno iniziato a preoccuparsi di essere all’altezza.

In sostanza, nella nostra versione social, continuiamo a dare giudizi positivi nella speranza di ottenerne a nostra volta. Giochiamo in difesa, dice Easton Ellis, riverniciando le nostre identità per dimostrare di avere una buona reputazione.

Questo succede nella critica letteraria, in quella musicale e cinematografica, in politica e nella vita di tutti i giorni di questo che lo scrittore chiama Post-Impero (successivamente all’11 settembre 2001). A funzionare non è più il Frank Sinatra degli anni dell’Impero (cioè quelli precedenti al conformismo odierno): “prepotente, oppure tormentato, affascinante, polemico, o anche solo strano – ossia semplicemente un uomo, senza dover chiedere scusa a nessuno“.

Il modello invece è la vittima, descritta magistralmente in questo passaggio:

Fare la vittima è come una droga – ti senti così bene, attiri così tanto l’attenzione del prossimo, finisce davvero per definirti, è una botta di vita, e ti fa sentire perfino importante nel momento in cui mostri le tue presunte ferite in modo che la gente possa leccartele. Non hanno forse un sapore così buono?

Le ultime pagine analizzano la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2016 negli Stati Uniti. Ironia della sorte, Trump era il modello di riferimento di Patrick Bateman, lo yuppie psicopatico protagonista di American Psycho. La sua campagna elettorale è stata giocata secondo regole del tutto nuove, ma il fronte progressista non ha saputo reagire, irrigidito in uno stato di autoproclamata superiorità morale che lo aveva distaccato dalla realtà.

Un inno all’anticonformismo dunque, una constatazione del rischio che si corre nel diluire la propria individualità diventando schiavi dei social, dei follower e dei like. Lettura non facile ma che fa riflettere.