Franz Kafka affronta il tema della colpa, quale sgradevole sensazione di aver deluso le aspettative di qualcuno di autorevole come il proprio padre o la divinità. Ineluttabilmente giungerà presto una punizione, dolorosa e, almeno in un primo tempo, incomprensibile. Nel racconto Nella colonia penale, su cui si sofferma anche Demetrio Paolin, autore dell’opera che ci apprestiamo ad analizzare, l’espiazione assume le sembianze di un motto che viene inciso sulla pelle del reo affinché questi abbia l’opportunità di ricordarsene e di redimersi per la grave mancanza commessa nel passato (sappiamo bene che ciò non potrà mai accadere poiché la condanna è definitiva, pressoché mortale…).
Ecco, il tema del passato. Ma è davvero possibile vivere liberi da esso? Si può perlomeno tentare di pensare al presente e di proiettarsi verso il futuro senza sentire lo stomaco contrarsi da una sequela di rimpianti, di rimorsi, di errori commessi che ci condizionano a vita? Cosa si può fare quando il passato assume le sembianze delle generazioni che ci hanno preceduto con le loro scelte sbagliate e, come un fantasma, viene dall’aldilà a spaventarci impedendoci di proseguire il cammino?
Il libro di Paolin prova a dare delle risposte a tutte queste domande. Narrando di un passato che, terribile, pesa come un macigno…
Anche qui, come nella colonia penale di kafkiana memoria, la colpa viene impressa sull’epidermide: è la colpa che pesa sull’ebreo, appartenente ad un popolo inferiore e cospiratore nei confronti della Grande Germania, sin dalla notte dei tempi.
Racchiusa in un “dipinto”, significativamente intitolato “La Gloria”, è infatti un pezzo di pelle umana, di origine indubbiamente ebraica, sulla quale spiccano scene di colore scuro incise da un tatuatore su ordine del gerarca nazista Heinrich Wollmer, al fine di riprodurre la superiorità ariana su individui indegni di stare al mondo e per questo sterminati.
Ci sta tutto il raccapriccio di Rudolf Wollmer che, in un giorno qualunque degli anni ‘80, scopre il quadro nella casa lasciatagli in eredità dal padre, mai pentitosi di aver aderito ai progetti di Hitler.
Ma il rinvenimento si trasforma nell’occasione per affrontare a viso aperto il proprio ingombrante passato di figlio di un nazista: finora Rudolf si è limitato a rimuovere la figura del padre allontanandosi da lui e militando politicamente a sinistra.
L’atteggiamento finora mantenuto simboleggia un intero popolo tedesco, chiuso in una sorta di omertà post-bellica, che preferisce non parlare per cercare di dimenticare.
Rudolf d’ora in poi prediligerà fronteggiare manifestamente lo scomodo passato, personale e della sua nazione, e lo farà mostrando il quadro nelle pubbliche piazze, nelle scuole, al museo, sebbene ciò diverrà una forma di ossessione che provocherà l’abbandono della famiglia.
A questo punto può sorgere una curiosità: chi è colui che ha materialmente cesellato La Gloria sulla carne?
La vicenda di Rudolf si interseca quindi con l’esistenza silenziosa di Enea Fergnani, di professione tatuatore da quando è tornato nella sua Torino dopo essere sopravissuto a Mauthausen, dov’era il prigioniero n. 23457.
Dalla sua liberazione, Enea vive anch’egli un greve senso di colpa, comune a quanti, come quel Primo Levi di cui Paolin è un attento studioso, hanno raccontato la loro esperienza nel lager: essere sopravvissuto, solo perché un Dio arcano e indifferente ai destini umani ha senza apparente motivo disposto la sua salvezza a danno di altri derelitti.
A ciò si aggiunge, naturalmente, il tormento per aver obbedito a un ordine marchiando un fratello ebreo.
In una sorta di sentiero parallelo a quello percorso da Rudolf, Enea, troverà l’occasione per sfidare apertamente il proprio passato esponendo le sue creazioni in un itinerante spettacolo in cui la cute tatuata è l’indiscussa protagonista. La modella solitamente utilizzata è la giovane e mansueta Ana, già avvezza al sacrificio (poi, però, si vedrà, anche nel senso tragico del termine) del proprio corpo avendo sofferto di disturbi alimentari.
Ma si incontreranno mai, nella loro sfida al passato, Enea e Rudolf?
Vale senz’altro la pena ripercorrere eventi che hanno segnato in maniera funesta la storia dell’umanità, anche alla luce di un mondo d’oggi nel quale la mano violenta dell’uomo dimostra di non volersi disarmare.
Questo libro, che, lo ricordiamo, è stato candidato all’ultimo Premio Strega, come un coltello tagliente penetra le ipocrisie di un paese, la Germania, che non ha mai fatto davvero i conti con il suo passato nazista e non ha mai approfondito fino in fondo tematiche quali il collaborazionismo e l’adesione massiva di un popolo, senza la quale, probabilmente, Hitler non sarebbe mai riuscito ad andare al potere, trovando invece più comodo trincerarsi dietro la vergogna e il silenzio.
Tuttavia mi rendo conto che l’autore nella stesura del testo ha corso un bel rischio: quello di essere, parafrasando un motivetto di Samuele Bersani, “solo la copia di mille riassunti”, ovvero quello di essere solo l’ultimo di una serie di opere che, almeno in Italia, hanno trattato argomenti quali il nazismo e l’olocausto. Solo il successo delle vendite dirà se ha avuto senso correre questo rischio.
Da sottolineare invece un rigurgito di attualità infilato nel testo: il legame fra i roghi delle camere a gas e il rogo che tutta l’Italia ricorda perché molto più vicino nel tempo della fabbrica tedesca ThyssenKrupp proprio a Torino in cui perirono sette operai: una scelta forse un po’ imprudente ma tutto sommato coraggiosa, considerando la recentissima conferma delle condanne dei responsabili in Cassazione.
Autore: Demetrio Paolin
Titolo: Conforme alla gloria
Editore: Voland
Anno: 2016