Per recensire quel capolavoro che è “Le cose semplici” di Luca Doninelli (Bompiani), candidato al Premio Campiello 2016, mi affido ai “dieci principi utili a scrivere una recensione che il lettore apprezzerà” stilati da Giulio Mozzi (potete leggerli qui). In particolare, seguirò alla lettera il principio 8. Uno, perché desidero che il lettore apprezzi la recensione e acquisti il libro. Due, perché innanzi a un miracolo letterario come questo, mi sento sopraffatta. Ansia da prestazione.

Contravvengo subito al principio 2 (“una buona recensione dell’opera, non parla di te“) – perdonami Giulio – e inizio annunciando che per via di questo libro clamoroso sto vivendo un lutto letterario. Nulla mi pare più degno di essere letto.

Detto questo, torniamo alla recensione e ai principi di Giulio Mozzi. “Una buona recensione è di solito divisa in parti. Nella prima parte si dà una sommaria descrizione dell’oggetto“. “Le cose semplici” di Luca Doninelli è un volume di 838 pagine (riassunto compreso), molto gradevole da maneggiare. La copertina flessibile e le pagine di carta velina, scritte a caratteri sufficientemente grandi, facilmente leggibili, ne fanno un ottimo compagno di viaggio. Solo in questo senso, è una lettura consigliata anche fuori casa. Perché di leggero, dentro, c’è poco. Ciononostante, in nessun caso, sia fisico che letterario, la lettura risulta pesante. 

Ho sentito dire da un giovane autore premiato che in questo libro Doninelli “sbrodola”. Che dopo le prime 70 pagine ancora non si capisce dove intende andare a parare. Io non sono assolutamente d’accordo. Nel senso che, secondo me, si capisce bene dove vuole andare a parare. E, anche se fosse, anche se sbrodolasse, che male c’è. Io sto dalla parte di Doninelli quando scrive:

perchè il bello delle storie è la possibilità che danno di perdercisi dentro, vagare qua e là. Scegliere i percorsi che ci attirano, sbagliare strada”.

Ma veniamo a una parte difficile: la trama.

Vista da un lato, la trama racconta una grande storia d’amore, quella tra il il genio della matematica Chantal Terassier e un italiano a Parigi, studente di letteratura, che conosceremo come Dodò. Lei, a quindici anni, insegna già all’Università, lui bighellona perdendosi tra le vie della Ville Lumière. Si schiarisce le idee solo quando la incontra finendo per sposarla non appena l’enfant prodige raggiunge la maggiore età. Poco dopo Chantal vince un’importantissima onorificenza che la porta negli Stati Uniti, Dodò la accompagna per poi tornare e aspettarla in Italia.

Per quanto riguarda me, il fatto della mia vita è soltanto lei. Tutte le parole della vita, non soltanto “intelligenza”, “cultura”, “studio”, “attenzione”, “applicazione”, ma anche “verità”, “vita”, “amore”, “fidanzamento”, “matrimonio” in quei tre anni cambiarono significato, tanto che nella mia testa perfino Alda e soprattutto mio figlio sono eventi interni alla mia storia con Chantal.

Vista da un altro lato, la trama racconta il grande disfacimento della civiltà occidentale, “il gran ritiro”. Non è una catastrofe naturale, nè una guerra nucleare o un’invasione extra-terrestre – come i grandi autori delle distopie politiche, sociali e fantascientifiche hanno lungamente immaginato – a condurre al tracollo. Il declino raccontato da Doninelli è – ahimè – molto più verosimile e credibileÈ il frutto di un lento, impercettibile, silenzioso ritirarsi.

Già da molti anni, con tutto il brulicare di iniziative politiche, guerre, movimenti pacifisti, battaglie sociali, con la crescita dell’informazione fino a una copertura quasi capillare del suolo mondiale, con tutta la possibilità che la tecnologia offriva di realizzare reti – economiche, ideali, di solidarietà – l’impressione generale, ben fissata nella mia memoria, è quella di una marea che si ritirava sempre di più, lasciando sulla sabbia umida animali morenti, conchiglie, balene, alghe aggrovigliate. Il mondo aveva smesso di essere un affare vantaggioso, c’era troppa gente, e troppa gente vuol dire lavoro in perdita: chi l’aveva sempre dominato stava soppesando i costi e i ricavi e cominciava a pensare che non valeva più la pena investire nella sopravvivenza. Ebbe così inizio il grande ritiro.

Accade così che questo grande ritiro separi Chantal e Dodò per venti lunghi anni. Le forniture estere di elettricità e gas si interrompono, il greggio smette di essere importato, nessuno è più in grado di stabilire il prezzo di nulla, terminano le comunicazioni telefoniche, radio e TV e tutti i servizi Internet, riportando improvvisamente il mondo alla sua grandezza naturale.

E qui comincia un altro lato ancora della trama, quello incentrato sulla figura di Chantal, il personaggio più affascinante, complesso e al tempo stesso solido e lineare di questo libro.

Ritrovatasi sola a New York, lontana dal grande amore della sua vita Dodò, bloccato in Italia, facendo forza sulla sua incrollabile fede cristiana, Chantal si impegna nella conservazione di quello che, secondo lei, può salvare la civiltà: le cose semplici. Anzi, il sapere le cose semplici. Conoscere le buone maniere, sapere come usare chiodi e martelli, riconoscere il canto degli uccelli e via discorrendo. È così che, a poco a poco, cresce la BKU (Bellnda Kellerman University), una città, ma anche uno stato, ma anche un’università in cui vige una sola legge fondamentale: insegnare quello che si sa fare.

Alla caduta del mondo mi ero resa conto che l’uomo del mio tempo, e io con i miei figli prima di tutti, non sarebbe mai sopravvissuto all’ipotesi di dover ricominciare a vivere come nell’età della pietra. Bisognava cercare di salvare la maggior quantità possibile di conoscenze.

Secondo le regole di Mozzi, dovrei passare ora a segnalare i motivi d’interesse e a dare un giudizio di valore su questo libro. Potrei elencarne moltissimi: l’impostazione filosofica su cui poggia, i valori che trasmette, l’originale cifra distopica che veicola, le domande che pone, i racconti incessanti che compongono come in un mosaico la trama, i tanti personaggi che lo affollano, tutti ben delineati, tutti portatori di senso, tutti interessanti, a tratti divertenti, a tratti tristi e dolorosi. E poi lo spessore: le citazioni, i richiami, la cultura, una solida cornice entro cui Doninelli “sbrodola”, perdendosi e facendoci perdere in un tempo e uno spazio che tutti possiamo ben riconoscere. Perché Doninelli, in fondo, tenta di fare letteratura (e ci riesce), offrendo una risposta alla domanda “che cos’è l’uomo”.

Da quel momento in avanti, quasi più niente: decenni e decenni di letteratura senza che quella stessa domanda (che cos’è l’uomo?) faccia più capolino tra le pagine. La letteratura diventa più composta, più civile, più educata, più attenta ai valori condivisi come anche alle oscillazioni del mercato, ma della vecchia domanda – portatrice di sapienza ma anche, occorre ammetterlo, di follia – si perde pressoché ogni traccia.

Resta da dire a chi lo consiglio: a chi ama interrogarsi sulle ragioni dell’esistenza dell’uomo, a chi cerca buoni motivi per lottare per la sopravvivenza dell’uomo, a chi si oppone a quanti pensano:

“L’uomo è un essere completamente inutile. Si estinguono animali tanto più belli e nobili, come la tigre del Bengala, perchè non dovrebbe estinguersi l’uomo?”

PS. Tento infine la risposta all’indovinello che Doninelli pone al lettore: “cosa c’è, qui a Long Island, che a Milano mancava?”. Rispondo: la fede, la fiducia.

PS. Un ringraziamento a Bompiani per aver pubblicato un libro di 836 pagine, facendo un favore ai lettori che amano leggere.

Autore: Luca Doninelli
Titolo: Le cose semplici
Editore: Bompiani
Anno: 2015