Ci vuole una grande penna per cambiare registro in modo così radicale e sorprendente. Non scopro certamente io le capacità di Antonio Manzini, l’ideatore della fortunata (e appassionante) saga del vicequestore Rocco Schiavone (pubblicata da Sellerio e recentemente trasformata in una serie televisiva, trasmessa da Rai Due). Ma certo è stata un’incredibile avventura la lettura di Orfani bianchi, il romanzo edito da Chiarelettere. Dimenticatevi il burbero Schiavone, l’ambientazione montanara, i fantasmi del passato e i “gradi di rottura di coglioni” con cui vengono etichettate le piccole o grandi questioni che il poliziotto incontra sulla sua strada.

La protagonista di questo romanzo invece è una donna. E già qui si potrebbe sottolineare la difficoltà, per uno scrittore uomo, di descrivere un personaggio femminile. In più Mirta non è italiana, bensì moldava. Vive in Italia, a Roma, accontentandosi di condividere luridi giacigli con altre donne straniere. La paga per fare le pulizie è misera, le condizioni di lavoro terribili. Ma è quanto basta per mandare qualche soldo a casa, dove il figlio Ilie vive con la nonna.

La distanza è un macigno sull’animo di Mirta, le notizie arrivano con il contagocce, via posta elettronica. Un tragico incidente costringe Mirta a dovere affidare il figlio ad una struttura, un “internat”. Già così il nome suona terribile. Quando poi si scopre che si tratta di un orfanotrofio, anche il lettore con il cuore più duro non può non immaginare cosa voglia dire, per una madre, dover mandare il proprio figlio in una struttura per chi non ha più genitori.

Nella triste quotidianità di Mirta capita l’occasione, quella di andare ad assistere un’anziana donna. La paga è profumatissima, l’idea che pochi mesi di quel lavoro possano dare una svolta alla sua vita spinge Mirta a qualsiasi sotterfugio per ottenere quel posto. Lo scontro con la realtà è deprimente: i familiari dell’anziana la abbandonano in una casa enorme con la vecchia, che si dimostra quasi ingestibile. Feroce nella sua cattiveria, perfida nel suo non voler collaborare, sottopone Mirta alle peggiori umiliazioni (anche se poi ci si accorgerà del perché di tanta durezza). E in più c’è il contorno, a rendere tutto ancora più difficile: Mirta è trasparente, come tutte le badanti che vediamo in giro, mentre spingono le sedie a rotelle dei nostri anziani. In un parco un uomo si rivolge al cane – che Mirta sta portando in giro – e non rivolge parola alla donna.

«Stai bene mi sa, guarda come sei felice. Hai visto chi c’è, Truffy? C’è Ezechiele!». Mirta non l’aveva neanche guardata. Per il signore in pensione con la giacca Burberry lei non esisteva. Era poco più di un’ombra.

E sono molti altri le mortificazioni alle quali deve sottostare Mirta: ingoia un rospo dopo l’altro pur di ricongiungersi, prima o poi, con il suo Ilie.

Un bacio rubato da un connazionale – innamorato di lei – le fa sentire, dopo tantissimo tempo, il calore dell’affetto. Perché nelle sue condizioni non c’è neanche il tempo per l’amore.

Può succedere, si disse, quando si perde l’abitudine a certe cose della vita. Quando si mettono da parte funzioni vitali, sentimenti, e si pensa solo alla sopravvivenza. Se l’unica preoccupazione è mangiare, trovare un lavoro, mandare soldi a casa, vivere con la paura che tutto fili liscio e non ci siano intoppi, rimane ben poco.

Il finale precipita verso una tragica conclusione, lasciando i lettori con un peso sullo stomaco. A parte qualche leziosità linguistica – che non ci si attenderebbe da una persona con un presumibile basso livello scolastico – Mirta è dipinta da Manzini con nitida chiarezza, a fondo ma senza morbosità. E se proprio si vuole trovare un difetto al romanzo, è nella fin troppo rapida conclusione, che forse avrebbe meritato qualche pagina in più. Per il resto è veramente un libro toccante, commovente e straordinariamente duro: una prova d’autore superata a pieni voti.

Autore: Antonio Manzini
Titolo: Orfani bianchi
Editore: Chiarelettere
Anno: 2016