Come scrive Alfonso Berardinelli nel suo Discorso sul romanzo moderno (Carocci Editore, 2016): «Il romanzo è un genere letterario che ha nel centro della sua tradizione il rifiuto di ogni tradizione e l’impulso a ripartire dal presente, da zero e dal basso», mentre per Scholes e Kellogs: «I romanzi sono opere nelle quali si tenta il tutto per tutto» (La natura della narrativa, Il Mulino, 1970).

Ecco quello che fa Davide Brullo, fa tabula rasa di tutta la letteratura precedente e riparte da zero. Immagina, come Roger Caillois (o era Alfonso Bioy Casares?), che l’Odissea sia posteriore all’Eneide e attribuisce a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce l’Imitazione di Cristo; come Borges attribuisce il Don Chisciotte a Pierre Menard e Finzioni a Cervantes o a Dante.

Ecco quello che fa Davide Brullo, tenta il tutto per tutto.

Questo Un alfabeto nella neve è la sua quarta mistificazione letteraria. Nelle tre precedenti, che costituiscono il Ciclo del Tradimento, ha inserito un libro nel libro: i Pensieri ultimi di Papa Benedetto XVI, nel suo romanzo Rinuncio del 2014; a cui sono seguiti Ingmar Bergman: la vita sessuale di Franz Kafka (2015), nel quale Davide Brullo traduce dallo svedese i taccuini segreti del regista e Pseudo-Paolo. La lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro (2018) in cui afferma che la Chiesa non è che un’istituzione destinata a finire, che è di fatto solo una farsa consolatoria per i fedeli.

In quest’ultimo romanzo Brullo viene in possesso, tramite Ingrid, facoltosa russa residente sul Lago Maggiore, del carteggio tra Boris Pasternak e Marina Cvetaeva, che si credeva perduto da quando un’impiegata del Museo Skrjabin, che custodiva le lettere, le dimenticò nello scompartimento del treno elettrico che la riportava a casa, dopo una giornata di lavoro.

Così quelle lettere continuarono da sole la loro corsa nella Storia, verso il sol dell’avvenire. E da lì si credettero perdute per sempre. Serena Vitale le presume usate da qualcuno per accendere la stufa durante il gelido inverno di guerra, questo è in fondo «il vero compito della letteratura: diventare fuoco perché un altro, sconosciuto, si riscaldi».

Così le lettere continuarono il loro viaggio, arrivarono rocambolescamente nella famiglia di Ingrid e infine, per donazione testamentaria, al nostro narratore che le riproduce nella seconda parte di questo volume, riportando alla luce ciò che si credeva perduto per sempre. Brullo rievoca quelle emozioni. Colmando così una lacuna della storia letteraria.

Perché quello che l’autore ci vuole dire non è, manganellianamente, che la Letteratura è una menzogna. Al contrario. La letteratura, la poesia, sono la sola Verità possibile e l’unica via d’uscita, l’unica salvifica certezza. Eppure come facciamo a credere a un falsario? Davide Brullo urla “al lupo al lupo” e il lupo c’è sempre, reale o immaginario che sia.

Davide Brullo in fondo è innocente. È solo il curatore di questo volume. Il suo è un infantile depistaggio, uno scherzo apparentemente innocuo, architettato fischiettando, mentre procede all’indietro nella neve. È reo confesso, innocentemente compie l’assassinio della verità come una delle belle arti:

«Pubblicai un soggetto di Ingmar Bergman che narra le perversioni sessuali di Franz Kafka, ho le prove della pederastia ossessiva di Giorgione, ho pubblicato una lettera in cui James Joyce ammette di aver violato la figlia matta, so – e ho convinto tutti – che Hemingway era affamato di uomini e che ha avuto una relazione con Simenon – fotteva le mogli altrui solo per proteggere il proprio personaggio pubblico. Amavo dissacrare i miti e disonorare i riti, stanavo le colpe, le insospettabili malizie. Perché, pensavo, il desiderio è già atto e l’uomo è maceria»

Quelle di Davide Brullo sono le confessioni di un bugiardo, ci dice “Io mento, ho sempre mentito”. Narra la sua caduta completa, racconta di come perse il suo lavoro di giornalista per l’accusa di un “uso dispotico e personalistico del mezzo d’informazione”, dimostrarono che inventava fatti, notizie, interviste e confessò: «È vero» disse, disse:

«La parola, a mio avviso, non testimonia ciò che c’è; lo crea, lo fa esistere. I fatti non esistono di per sé ma perché qualcuno li nomina e qualcun altro li interpreta»

Perché forse, invece di voluti e premeditati depistaggi, invece di un dolo e di una baratteria, siamo di fronte a doverosi emendamenti, a delle significative correzioni alle storture della storia e degli storici. Critici e accademici sono i veri falsari. Chi può dire ciò che è vero e ciò che è falso. Rimangono delle ipotesi e chi è senza dubbi lanci la prima pietra dello scandalo.

La possibilità affascina più della verità. Un uomo è per definizione incomprensibile, l’altro è sempre un enigma e allora è meglio immaginarlo. Ma solo di immaginazione si tratta? I morti sono indifesi, non sanno chi sono stati, siamo noi che dobbiamo reinventarli, ricomporli, chi meglio di un poeta, di Brullo, simile a Orfeo, con prosa simbolista, così elegiaca ed evocativa, può riesumare un poeta, resuscitarlo?

E se Davide Brullo, invece che un falsario, fosse solo un mero strumento, il medium, attraverso il quale Boris Pasternak e Marina Cvetaeva parlassero di nuovo? Se l’epistolario, presunto apocrifo, fosse invece reale, com’è reale il Chisciotte riscritto parola per parola da Pierre Menard?

Recentemente Veronica Tommasini e Davide Brullo si sono immersi in una sperimentazione letteraria: sono Vera e Nathan, due profughi dell’esistenza, in esilio dal frastuono cronologico, si scrivono lettere da un 1950 d’invenzione, creano un epistolario onirico scrivendo lei da Tel Aviv e lui da Praga. Ma da dove vengono quelle parole, che resuscitano sensazioni che qualcuno ha realmente vissuto? Se entrambi non fossero che strumenti predisposti a captare pensieri da un aldilà, da una dimensione più reale della nostra?

Fernando Pessoa in un brano denominato Il traduttore invisibile e inserito nelle Pagine esoteriche pubblicate in volume da Adelphi editore nel 1997, prova da par suo a risolvere l’enigma della letteratura e della comprensione di un testo che ci giunge in un’altra lingua, da un altro luogo, come fosse un’altra dimensione, che comunque recepiamo:

«Possiamo, per intuizione o con quel che sia, figurarci l’anima e la vita di un’opera poetica di cui non sappiamo niente, o di cui, nella migliore delle ipotesi, conosciamo solo una versione in prosa, che è un’altra forma, più complessa, dello stesso niente. Molti di noi, però, si figurano con discreto esito l’anima e la vita di opere che non hanno mai letto grazie a vaghe reminescenze di riferimenti, a oscure e casuali allusioni; e lo stesso vale per le opere, sempre in lingua straniera, di cui non esiste, o perlomeno non abbiamo mai letto nessuna traduzione. Qui il traduttore invisibile opera invisibilmente. Non ci muoviamo più per intuizione: indoviniamo»

Pessoa arriva a immaginare uno stato prenatale, simile a un platonico mondo delle idee, nel quale ci siamo trovati faccia a faccia con l’opera, non nel corpo verbale che possiede in questo mondo, di pure ombre proiettate sulla parete della caverna epistemologica, ma nel suo spirito e quindi, in una sorta di metempsicosi:

«Chissà, per di più, se in questo stato prenatale, ancora fuori dallo spazio e dal tempo, non abbiamo già visto tutto, il passato e il futuro di questo mondo, sub specie aeternitatis; e così, una volta in grado di risvegliare in noi questa anamnesis, se non siamo, oggi, noi stessi traduttori invisibili, signori inconsapevoli delle opere che devono ancora nascere nel corso futuro del mondo»

Ipotesi. Diverse tesi, materialistiche o esoteriche, non fanno che creare una cortina di fumo. La nebbia s’infittisce. Tutto è in bilico, incerto, transeunte, caduco. Omero non è mai esistito. La guerra di Troia non avrà luogo. Shakespeare era Francesco Bacone o viceversa. E per riscrivere da capo tutto ciò che è stato scritto, e anche ciò che non è stato ancora scritto, ma solo immaginato, basta sguinzagliare un esercito d’instancabili scimmie dattilografe sulle loro Lettera 22.

La storia della letteratura è sogno, la vita è sogno. Non ci resta che quella sorta di divinazione che ci porta fallacemente a indovinare ipotesi contrastanti. Tirare i dadi non abolirà mai il caso. C’è un solo demiurgo. C’è solo Davide Brullo nel buio, in una stanza nella nebbia, che scrive, che scrive, che ancora scrive mentre albeggia e la nebbia si dirada.

Davide Brullo
Un Alfabeto nella Neve
Castelvecchi
2018