Antoine Volodine è una sola moltitudine.

Racconta di vivere assediato dagli spiriti di altri scrittori, che si impossessano del suo corpo creando dentro di sé una polifonia di voci. Il suo è un lavoro collettivo, perché scrive più romanzi contemporaneamente, sotto vari pseudonimi.

Anche Terminus radioso è il risultato di un lavoro di anni, in un unico calderone in cui annotava tutti gli spunti che provenivano da fuori di sé e poi un altro anno e mezzo di lavoro particolareggiato, così che quella che alla fine ha consegnato all’editore era la 17esima versione, da cui ancora non voleva separarsi.

Per Volodine la narrazione è tutto.

In questo libro mette in scena un tema fondamentale del post-esotismo: un mondo in via di disfacimento; mette in scena la progressiva fine dell’umanità per far emergere le caratteristiche stesse della specie umana, crea così un ambiente estremo, molto poetico ed evocativo, che anche molti altri autori in questo periodo hanno usato come stratagemma per raccontare l’uomo:

«I territori vuoti non offrivano asilo né a fuggiaschi né a nemici, il tasso di radioattività là dentro era spaventoso, non calava da decenni e prometteva a qualunque intruso la morte nucleare e basta. Dopo aver strisciato sotto il filo spinato della seconda recinzione, avevano preso ad allontanarsi verso sud-est. Foreste prive di animali, steppe, città deserte, strade abbandonate, binari della ferrovia invasi dall’erba: nulla di quanto attraversavano suscitava angoscia. L’universo era tranquillo e vibrava in maniera impercettibile. Persino le centrali atomiche, i cui accessi di follia avevano reso inabitabile il subcontinente, persino quei reattori incidentati, a volte anneriti, sempre silenti, avevano un’aria inoffensiva e spesso, come per sfida, era proprio lì che loro sceglievano di bivaccare.
In tutto avevano marciato ventinove giorni. Molto presto avevano cominciato ad avvertire gli effetti dell’esposizione alle radiazioni. Senso di malessere, debolezza, nausea di vivere, per non parlare dei conati di vomito e della diarrea. Poi il degrado fisico si era accelerato e gli ultimi quindici giorni erano stati tremendi. Continuavano ad avanzare, ma quando si stendevano in terra per passare la notte, si chiedevano se non fossero già morti. Se lo chiedevano sul serio. Non avevano elementi per riuscire a darsi risposta»

Saltate le categorie di spazio e di tempo, secondo i dettami del post-esotismo, ci troviamo in un mondo post-atomico nel quale non è il tempo, ma la durata che è distorta: una rottura con la cronologia e con la logica che instaura un universo non lineare, nel quale tutto è indifferenziato, notte e giorno e stagioni sono indistinguibili, così com’è difficile distinguere la vita dalla morte dal sogno, in un millenario cammino verso l’estinzione.

Nei territori inabitabili sopravvive una parvenza di vita nel kolchoz Terminus Radioso, governato dalla mistica religiosità sovietica, appresa su testi marxisti-leninisti, di nonna Udgul, che sopravvissuta alle radiazioni è divenuta immortale, con grande dispetto delle autorità del Partito Supremo, che la vorrebbero già morta e sepolta, per commemorarla come un’eroina piuttosto che sopportarla come una dissidente.

Laggiù, in quei territori dispersi nella steppa, la Pila atomica è il nuovo Dio, non rifugiatosi nell’alto dei cieli, ma 2000 metri sotto terra. E come affacciandosi sull’orlo del vulcano, la sacerdotessa nonna Udgul, l’immortale, non getta vergini sacrificali in quella bocca incandescente, ma rottami radioattivi, per placare la fame del dio nucleare:

«Ogni mese infatti, la pila andava alimentata. Si apriva il pesante coperchio che chiudeva il pozzo e si lasciava oltre la ghiera parte della robaccia parcheggiata lì per una o due stagioni, tanto per far vedere che non si agiva spinti dall’emergenza e che non ci si faceva affatto impressionare da qualche misero radioisotopo. Tavoli e sedie, apparecchi televisivi, carcasse bituminose di vacche e vaccari, motori di trattore, maestre carbonizzate, dimenticate nelle loro classi durante il periodo critico, computer, spoglie fosforescenti di corvi, talpe, lupi, scoiattoli e cerbiatti, abiti all’apparenza impeccabili, ma che bastava scuotere perché si volatizzassero in un nugolo di scintille, tubetti di dentifricio rigonfi di pasta che sobbolliva senza posa, cani e gatti albini, conglomerati ferrosi che continuavano a mugghiare in fondo alle viscere del loro fuoco, mietitrebbiatrici nuove di zecca che non avevano avuto il tempo di essere inaugurate e che a mezzanotte scintillavano come sfilando in parata sotto il sole, forconi, rastrelli, sarchietti, asce, scortecciatrici, fisarmoniche che sputavano più raggi gamma che melodie folkloristiche, assi di abete simili ad assi di ebano, stacanovisti tirati a lustro, la mano mummificata intorno al diploma, dimenticati durante l’evaquazione della sala delle feste. Registri contabili con le pagine che giravano da sole, giorno e notte. Il denaro dentro la cassa, le monete sonanti di rame che tintinnavano senza che nessuno vi si accostasse. Questo era il genere di cose che venivano scaraventate nel vuoto»

Nonna Udgul che apre la botola del pozzo e sussurra parole d’amore alla Pila, e il suo compagno Soloviei, sciamanico presidente di Terminus Radioso, che lancia oniriche urla disumane nella foresta, simili a ultrasuoni, per proteggere le figlie dalla lussuria degli uomini nelle terre di mezzo del sogno, disegnano scene attraverso le quali nella lettura sembra di assistere a un inedito e fantasmagorico lungometraggio di Miyazaki.

Così, su una terra non più fertile, ormai contaminata per sempre dalle abortite velleità della specie umana, si continua a vivere una vita che non è più vita, ma che confina con la morte o peggio con l’orrore di dover continuare a sognare all’infinito la ripetitività senza speranza di un’esistenza sterile e l’umanità, esausta e decimata, non avanza più passo passo verso il sole dell’avvenire, ma corre rapida verso l’autodistruzione. Sopravvivendo a sé stessa.

E questo stesso romanzo post-esotico (libro visionario e sciamanico, che raggiunge in pieno e supera di slancio il risultato prefissato dalla propria sconfinata ambizione), che come uno scrigno contiene magicamente questo strano universo radioattivo, a sua volta procede la sua allucinata narrazione in una personale dimensione di mezzo che crea un nuovo genere letterario, in bilico tra la parodia e l’incubo.

Antoine Volodine
Terminus Radioso
Terminus Radieux
Traduzione di Anna D’Elia
66thand2nd, 2016