A 50 anni dalla pubblicazione di “Dare e avere”, un ritratto del premio Nobel Salvatore Quasimodo.

Un’assolatissima mattina di fine agosto, una Milano deserta sotto un cielo stranamente turchino. Una bellissima casa il cui fulcro è un soggiorno ricolmo di libri e di fotografie in bianco e nero. In questa stanza così suggestiva, seduto accanto a un pianoforte a coda coperto da un drappo rosso, Alessandro Quasimodo, attore e regista teatrale, ci racconta del padre Salvatore e di Dare e avere, la sua ultima raccolta poetica.

dare-avere-1959-1965Sono passati 50 anni dalla pubblicazione di Dare e avere. Come si colloca quest’opera nell’arco della produzione poetica di Suo padre?

Dare e avere (Mondadori 1966) fu l’ultima raccolta di poesie di mio padre, e lui probabilmente la sentì come tale. Ne fece un bilancio della propria vita di uomo e di poeta: un rapporto di “dare e avere”, appunto. Una volta nelle ditte si usavano dei libri neri, i “libri mastri”, in cui venivano registrate le cifre relative rispettivamente alle entrate e alle uscite, e queste cifre dovevano compensarsi: proprio questa è l’idea sottesa al libro. Con Dare e avere mio padre iniziò un dialogo con l’aldilà: si pensi a Varvara Alexandrovna, la poesia dedicata alla donna che lo curò durante la sua degenza in Russia, dopo l’infarto del ’58, o a Ho i fiori e di notte invito i pioppi, in cui mio padre si paragona a un emigrante, figura in cui si è sempre identificato, in qualsiasi luogo abbia vissuto.

Come potremmo riassumere l’idea che Quasimodo aveva dell’esistenza umana?

Mio padre non è mai stato ateo, anzi: si definiva un cristiano. In molti scritti dichiara che il suo interesse è tutto rivolto all’uomo, e quindi, a maggior ragione, al Dio che si è fatto uomo. Seguiva le tracce della ricerca di Agostino, stimolato anche dall’amicizia con Giorgio La Pira. Scrisse infatti, tra le altre cose: «Certo non potrò sfuggire; / sarò fedele alla vita e alla morte / nel corpo e nello spirito / in ogni direzione prevista, visibile». Sono evidenti la sua fiducia e la sua speranza in qualche cosa di trascendentale che non viene ben definito, ma che per lui sicuramente esisteva. È evidente insomma il suo ottimismo: «Mi sembra di essere un emigrante / che veglia chiuso nelle sue coperte, / tranquillo, per terra. Forse muoio sempre. / Ma ascolto volentieri le parole della vita».

Quasimodo amava molto viaggiare, e alcune poesie contenute in Dare e avere sono dedicate proprio ai luoghi che visitò. Cosa rappresentava per lui il viaggio?

Sì, mio padre amava molto il viaggio. Probabilmente era nel suo dna: era figlio di un capostazione. Da ragazzo viaggiava gratuitamente sui treni insieme alla sua famiglia. Partiva da Messina e scendeva a Venezia, per fermarsi lì poche ore soltanto e mangiare qualcosa. Poi rientrava in Sicilia. Un viaggio lunghissimo! Non lo abbandonò neanche in seguito la curiosità di vedere i luoghi in cui si recava per tenere letture e conferenze: voleva visitarli, capire dove si trovava. Ho qui un disegno del suo viaggio in Norvegia. È molto naif, ma è una bella testimonianza.

Quindi Suo padre amava anche disegnare.

Certo. Un giorno incontrò un amico che teneva sotto braccio un pacchetto. Siccome mio padre era curioso come poche persone al mondo, insistette per sapere cosa fosse contenuto in quel pacco. Dopo qualche resistenza, l’amico gli spiegò che erano degli acquerelli per Beniamino Joppolo [scrittore, drammaturgo e artista, ndr], cui il neurologo aveva consigliato di dedicarsi alla pittura per rilassarsi nel tempo libero. Mio padre decise allora di provare a dipingere anche lui: prese il pacchetto del suo amico, lo aprì, riempì d’acqua un bicchiere e iniziò e dipingere sui fogli che aveva davanti. Realizzò ventisette acquerelli, quasi tutti astratti. Quando, qualche tempo dopo, mio padre disse al suo amico che intendeva gettarli via, questo li prese con sé: furono poi esposti a Milano, a Roma, in Ungheria…

Tornando a Quasimodo scrittore: egli fu non solo un grande poeta ma anche un grande traduttore. Che influenza ebbero gli inglesi, i greci e i latini sulla sua poesia?

Leggere gli autori stranieri in lingua originale arricchì indubbiamente la sua poesia. Mio padre ritrovò se stesso in Shakespeare, in Virgilio e in Omero, del quale tradusse alcuni brani dall’Iliade e dall’Odissea. E soprattutto si riconobbe nei Lirici greci (Edizioni di Corrente, 1940). Al di là del fatto che sua nonna era greca, mio padre si sentiva realmente greco. Un greco della Magna Grecia, s’intende. I modicani gli rimproveravano di considerare la sua città natale Siracusa… In un’intervista mio padre dichiarò: «Sono nato a Modica, nei pressi di Siracusa». Come se Siracusa rispetto a Modica fosse dietro l’angolo… [ride] Mio padre si sentiva molto affine alla poesia di alcuni poeti greci: a quella di Leonida, per esempio, di cui diede una splendida traduzione poco prima di morire (Leonida di Taranto, Guido Le Noci 1968). Si identificava in Leonida, nel suo struggimento e nel senso di morte e di fine che caratterizza i suoi versi. I manoscritti originali di questa sua ultima traduzione sono conservati ancora oggi nella biblioteca di Taranto, cui mio padre li donò. Vittorio Del Piano, operatore culturale ed editore di grande intelligenza, avrebbe voluto realizzare un prezioso volume contenente le riproduzioni di questi documenti, secondo un progetto proposto dal presidente della provincia di Taranto Antonio Rizzo. Purtroppo i lavori si fermarono a causa dei problemi di salute di Del Piano, così che di quel libro rimane oggi soltanto un prototipo, che conservo qui in casa.

Sappiamo che la poesia fatica a vendere nelle librerie, ed è, da sempre, un genere di nicchia. Quali sono le Sue riflessioni a riguardo?

Penso che, oggi, i poeti dovrebbero guardare al passato valorizzando nuovamente la dimensione orale della poesia. Non esiste solo la poesia come testo scritto. È un peccato però che alcuni piccoli miracoli editoriali non riscuotano l’interesse che meriterebbero: penso senza dubbio a Madre d’inverno, di Vivian Lamarque (Mondadori 2016), un libro che tutti dovrebbero leggere.