Silvia Pareschi è un’affermata e stimata traduttrice. Sue sono le traduzioni dei libri di Jonathan Franzen in Italia, a partire da Le correzioni. Ma numerosi sono gli scrittori angloamericani che ha trasposto in italiano. Da Don DeLillo a Cormac McCarthy, da Zadie Smith a Jamaica Kincaid, da Junot Diaz a E.L. Doctorow.

I jeans di Bruce SpringsteenOra è passata dall’altra parte della barricata e ha scritto un libro sul suo amore per gli Stati Uniti, dove vive per sei mesi l’anno, mentre per gli altri sei mesi torna in Italia. Il titolo di questa sua opera prima è I jeans di Bruce Springsteen, sottotitolo E altri sogni americani, una raccolta di racconti edita da Giunti.

In realtà il suo è un libro difficilmente inquadrabile. È qualcosa che sta a metà strada tra il racconto di fiction e il reportage giornalistico. Dentro ci sono le sue esperienze personali, vissute negli States, ma anche episodi come l’uragano Katrina raccontato attraverso gli occhi di una coppia intrappolata a New Orleans o un memorabile viaggio adolescenziale dalla West Coast a New York; la descrizione del palazzo del porno di San Francisco o un viaggio mistico tra le più assurde congregazioni religiose del paese a stelle e strisce.
Abbiamo incontrato Silvia Pareschi al Salone del Libro di Torino e le abbiamo fatto qualche domanda su questo suo primo libro:

Come si può inquadrare questo tuo primo lavoro? Sembra inserirsi in quel filone narrativo che discende dalla non fiction novel inaugurato da Truman Capote con A sangue freddo. Dove alla Fiction si mischia la realtà, Fact, generando quell’orribile sincrasi che è Faction. Filone che negli ultimi anni ci ha dato Gomorra di Saviano o un David Foster Wallace inviato all’Oscar del Porno, in Considera l’Aragosta.

Infatti è difficile trovare una definizione, perché non sono racconti nel senso di fiction. Li hanno chiamati anche saggi letterari, però c’è dentro della fiction, anche se non in tutti. Sono basati per la maggior parte sulle mie esperienze, ma c’è molto del reportage. Sono quasi tutti in prima persona, a parte tre brevi che sono in terza persona, con questo personaggio, di questa un po’ pazza che non sono io, ma è appunto una terza persona. Anche se le esperienze sono quasi tutte personali, ma con l’inserimento di elementi di fiction, di narrativa. Quindi c’è: in generale un po’ memoir, perché c’è l’esperienza autobiografica, poi c’è il reportage e infine c’è un pizzico di fiction, quindi è un genere un po’ particolare. L’esempio di DFW è perfetto, perché nel mio racconto Il Palazzo del Porno ho messo anche le note in fondo al testo per inserire elementi che non stavano direttamente nella narrazione, che sono un po’ un richiamo a DFW.

C’è molto anche del giornalismo d’inchiesta, come se fossi un’inviata speciale sotto copertura, vedrei bene questi racconti in una rubrica su un giornale, una cosa che ci riporta al new journalism, che mischia finzione e realtà.

Infatti alcuni di questi pezzi sono usciti su Rivista Studio e due o tre su Nazione Indiana, e poi rivisti, ripresi e rielaborati in funzione della pubblicazione in volume, ma nascevano come reportage. In particolare quello sul Palazzo del Porno, il racconto La scelta della religione e una parte di Dimmi come mangi, erano proprio nati come reportage.

Qual è quindi la % tra fiction e fact?

Metterei un 10%-15% di fiction, non di più.

C’è un test comunque per scoprire se la voce narrante è l’autrice o meno, se sei tu o no: fammi vedere se hai un Nokia del 2001, come la narratrice nel racconto Dimmi come mangi, dove si legge: «È una bella fortuna per me, l’ultima luddista di San Francisco, che per telefonare uso un cellulare Nokia del 2001 (il famoso cellulare immortale), con i tasti completamente cancellati dall’uso ma con la batteria che resiste per quasi una settimana».

Silvia Pareschi 2

E questi famosi “Jeans di Bruce Springsteen” che danno il titolo al tuo libro, sono quelli che indossi?

Eh magari. Ma i jeans esistono davvero, quello che narro nel mio racconto è successo veramente, anche la telefonata finale al sarto. È successo quando avevo sedici anni e recentemente, mentre ero a New York, dato che volevo risolvere questo enigma dei “jeans di Bruce Springsteen” di cui parlo nel racconto finale del libro, ho telefonato al famoso sarto di Bruce, ma lui mi ha risposto che era aperto solo alla mattina fino a mezzogiorno, per cui voleva dire che dovevo alzarmi alle sei del mattino per arrivare là e risolvere l’enigma e non ce l’ho fatta, neanche per Bruce Springsteen, ma forse è meglio così, è meglio che rimanga il dubbio e un alone di mistero.

È necessario venire da fuori per capire la società? In effetti tu vivi negli Stati Uniti, ma sei italiana.

Io posso rappresentare una specie di ponte tra le due società e le due culture. Un po’ perché partendo come traduttrice ho questa conoscenza a livello letterario, poi mi sono sposata con un americano e sono andata a vivere lì, ma solo una parte del tempo. Per cui riesco ad avere uno sguardo che non è completamente interno, come invece ha chi emigra all’estero e ci rimane tanto tempo, che finisce per perdere questa estraneità: ad esempio gli italiani che vivono all’estero per tanto tempo cominciano anche a perdere l’italiano e cominciano a dimenticare delle cose. Io invece sono esattamente in equilibrio tra i due mondi, quindi riesco ad avere uno sguardo sia interno, perché vivo lì per una parte del tempo, però riesco comunque a mantenere anche il mio sguardo esterno, da italiana. Da traduttrice devo proprio fare da ponte, da tramite tra le due culture, quindi non posso entrare completamente in una. Ma devo vedere la cultura americana un po’ dal di dentro e un po’ dal di fuori.

Tu hai una grande esperienza da traduttrice, a quali autori hai rubato di più e ti sente più affine tra quelli che hai tradotto?

L’autore di cui ho tradotto più libri è Jonathan Franzen, di cui ho tradotto tutto, tranne il suo primo libro. Probabilmente il suo stile mi è rimasto molto, proprio perché è l’autore che ho tradotto di più. È una cosa che mi sono chiesta molto quando ho cominciato a scrivere io, perché avevo un po’ paura di prendere troppo pari pari lo stile dell’autore che stavo traducendo in quel momento, invece in realtà mi sono resa conto che tradurre è stata per me una grandissima scuola di scrittura, perché traduco degli autori bravissimi e quindi mi serve e mi è servito molto per plasmare e modellare la mia scrittura, però alla fine non ho attinto da uno in particolare. Diciamo che magari il tradurre mi è servito più come base da cui attingere e alla fine è risultato una mescolanza di mio e di cose che ho preso dallo stile degli altri.

Tradurre sostanzialmente è anche entrare nel linguaggio di un altro autore, capirne la struttura e l’intima essenza, il meccanismo nascosto che nella semplice lettura non si coglie a pieno.

Tradurre, come si dice spesso, è il modo migliore di leggere un libro. Tu entri in profondità nello stile, entri proprio nella testa dell’autore in qualche modo, sei lì con lui e per tutto il tempo in cui traduci il libro sei nel libro, sei nella storia, è un’immersione totale.

Quando non lo fai per mestiere cosa leggi di solito?

Cerco di leggere autori italiani contemporanei, perché comunque per il mio lavoro devo sempre essere attenta all’evoluzione della lingua italiana. Il che significa anche andare in giro e sentire come parlano le persone per la strada, come parla la gente sull’autobus e come parlano e come scrivono gli scrittori. Devo sempre tenermi aggiornata sulla mia lingua. Ultimamente, mettendomi a scrivere racconti, mi sono messa a leggere tanti racconti. Ho ripreso Buzzati e i racconti di Pennacchi. Di recente ho letto anche Marco Peano, L’invenzione della madre.

Per te che sei una scrittrice di racconti e una lettrice di racconti, chi sono i migliori autori di questo genere?

A me piace tantissimo Buzzati e la sua creazione di un mondo fantastico che mi affascina molto. Tra i grandissimi anche Carver. E poi tanti racconti di quelli che ho tradotto. Ad esempio Nathan Englander o Junot Diaz, che hanno scritto racconti molto belli. Anche Margaret Atwood o Edna O’Brien, che adesso è uscita tradotta da Einaudi. Poi vado pazza per Grace Paley.

C’è un libro fondamentale per la tua formazione? Che in qualche modo ha condizionato la tua vita?

Metto insieme il mestiere e la passione e dico Le correzioni di Jonathan Franzen, che è il primo libro che ho tradotto e che è rimasto anche il mio libro preferito ed è un libro al quale sono rimasta molto affezionata.

Libro sul comodino?

Adesso sto leggendo Daniele Del Giudice, I racconti, tanto per cambiare, appena uscito da Einaudi.

Autore: Silvia Pareschi
Titolo: I jeans di Bruce Springsteen
Editore: Giunti
Anno: 2016