“Una compilation musicale ben fatta, su Youtube. Stavo diventando sordo. Ero una frittura di conchiglie marce. Le parole dalla bocca passavano alle orecchie e fuoriuscivano. Rigettavo parole. Tutte le immense idiozie ascoltate in anni e anni di devozione”.

L’incipit di “Vietato morire”, di Rocco Cento (Mnamon editore), cattura l’attenzione del lettore come un’istantanea preziosa appena rinvenuta da una soffitta impolverata.
La sensazione impalpabile di riconoscere il soggetto della foto rincorre il lettore per tutta la lettura del romanzo. Invita il pubblico a fondersi, quasi, con il protagonista, per essere in grado di capire il suo punto di vista sul mondo.

Miro è un professore di filosofia di un liceo classico nel domese, che ha un rapporto complesso con i suoi studenti e con il preside della scuola, suo vecchio amico. L’apice del conflitto culmina quando l’alunno più rumoroso e irrispettoso muore in seguito a un incidente avvenuto durante la sua ora di lezione.
Proprio in quei giorni, il sindaco della città emette un’ordinanza che vieta di morire, il ragazzo torna in vita e riprende la sua personale missione nel tormentare il protagonista.

“Il tentativo più osteggiato era la dimissione del DEA a favore di un semplice servizio di Pronto soccorso. Era troppo. Quel benemerito ospedale serviva una comunità di circa settantamila abitanti, non era quindi strano apprendere l’esistenza di una simile ordinanza. A partire dal giorno corrente, in data e nel comune di, si fa espresso divieto di morire in tutto il territorio insistente nel comune in oggetto. Firmato il Sindaco.
Un’ordinanza lapidaria, secca.”
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Questo non è altro che uno dei tanti episodi, drammatici e a tratti ironici, da cui Rocco Cento prende spunto, per aprire uno spaccato vertiginoso sull’infanzia di Miro. Per poi iniziare, dal basso, una scalata dolorosa che ripercorre quei momenti che l’hanno portato a diventare l’uomo tormentato e instabile di oggi.

Scopriamo che ha vissuto in campagna per gran parte della sua vita, in una comunità composta da famiglie che, negli anni sessanta, erano emigrate dal Sud Italia. Un quartiere che non lascia spazio all’emotività e alla delicatezza dei sentimenti, o alla profondità di pensiero. Miro cresce frustrato dall’impossibilità di esprimere il fuoco che ha dentro.

“Terrone mi diceva, da cattivo, sempre più baffuto. Io ero più piccolo, più fragile, più timido. Terrone, era da tempo che mi apostrofava. Terrone, Non mi andava giù. Rincasavo nervoso, depresso. Che c’è? faceva mio padre. Niente. Come niente? Niente papà. Dicevo sempre così, se mi lamentavo, se non mi difendevo, ero punito, picchiato. Impara a difenderti.”.

Rocco Cento si focalizza sulla psicologia del protagonista, che diviene più importante del romanzo stesso. Il lettore abituato ad assistere all’evoluzione dei personaggi dall’esterno si troverà inizialmente spaesato dalla scrittura ruvida e futurista, ma sembra proprio questo l’obiettivo dell’autore: impersonarsi guida di un viaggio all’interno dell’anima di un uomo prossimo alla pazzia.

Miro è prima Uomo del sottosuolo, condannante gli uomini di azione – così determinati nel perseguire un’obiettivo, ma anche ciechi nel capire quanta sofferenza esso possa causare.
Nella seconda parte del romanzo, poi, si trasforma lentamente in Raskolnikov, condannato dal suo stesso tormento, che in “Vietato morire” si presenta sotto forma di un lancinante acufene.

“Le orecchie mi dolevano. Non sentivo quasi più. Volevo finire il mio anno di scuola, portare i ragazzi agli esami di maturità. Solo per questo compravo l’apparecchio acustico. Sulle prime mi aiutava. Dopo cominciavano i problemi. Bisognava regolarlo, registrarlo quasi ogni giorno. Era una tortura”.

Quali sono le conseguenze dell’immortalità forzata?
Rocco Cento analizza la psiche umana e ci dà la risposta in “Vietato morire”, dove si fondono trama originale e pensiero filosofico. L’uno non può vivere senza l’altro, ognuno ricopre la stessa importanza.


E’ la rivincita della riflessione sull’azione, della voce genuina dell’istinto sull’ingannevole impulsività.
Una rivincita del genere, può essere ricondotta soltanto alla pazzia, perché nella società in cui vive Miro e, forse, anche nella nostra, difficilmente trova spazio.
Rocco Cento gioca, quindi, con i paradossi, a partire dal titolo: “Vietato morire”.

Lo stile del romanzo è caratterizzato da una penna futurista e graffiante, che sceglie di annullare le virgolette e fondere i dialoghi con il resto del testo. La prosa, a tratti, richiama la poesia e la musica.