Tutti sbagliamo. Tu hai sbagliato stasera. Tranquilla, nulla è senza rimedio. C’è tutto il tempo.

Rosita. Che nome del cazzo — pensi. — È italiana, e ha un nome spagnolo; che assomiglia a un diminutivo, ma non lo è. Si chiama proprio così: e, quando lo pronuncia, pare vantarsene; uno glielo chiede e lei lo dice, mentre — con lo sguardo, il movimento delle labbra, quella tendenza ad inclinarsi verso di te, avvicinando la testa — sembra volerti fare chissà quale sorpresa.

La odii. È normale. È lei che è odiosa. Non ha rispetto. Sei tu che l’hai portata lì, o no? E allora dovrebbe comportarsi meglio. Non dico di chiederti il permesso, questo no, mica siamo nell’Ottocento. Ma non dovrebbe esagerare.

Fa la smorfiosa con tutti, ride a ogni battuta: cazzo, ce ne sarà pure una che non fa ridere! Le avevo detto di venire a divertirsi con me, non di mettersi a dare spettacolo.

Se l’avessi saputo prima, l’avresti lasciata a casa. Ma tu l’hai sempre portata con te, invitarla è stata una cosa — come dire: — automatica. Quando aveva 12 anni, e tu 19, era tutto più facile. Ora lei ne ha sedici; in compenso, non dà più quelle occhiate continue che ti chiedevano, silenziosamente, l’approvazione.

Se almeno dimostrasse gli anni che ha e basta! Invece sembra più grande: la frivolezza è quella della sua età, ma ha un corpo — e le movenze, e una specie di consapevolezza negli occhi — che ti viene da pensare. Soprattutto ai maschi. Quelli, poi. O entrano subito in soggezione — e quando gli passa più; o ne vengono sovraccaricati, fuori misura, come un amplificatore a fine corsa che distorce il suono in un rumore elettrico fastidioso e inutile.

Tutto è cominciato quando Nico ha preso la chitarra. Lì te ne sei accorta. A gambe incrociate, sulla sabbia, si è distesa all’indietro, puntellandosi sulle braccia. Era volgare. Lì hai capito che lei aveva capito. E che lo stava facendo apposta.

Sì, lo stava facendo apposta. È una posizione che cattura subito l’attenzione. Vedere una donna — ché Rosita è una donna, inutile girarci attorno; solo che fino a stasera nessuno se n’era ancora reso conto — che s’inarca all’indietro, come per offrirsi; ma anche soltanto mostrandosi al mondo senza difese, con le mani bloccate, aperta a qualunque cosa possa accadere… è roba da eccitare i più bassi degli istinti. Anche una donna ci cascherebbe. Non solo io.

Poi la musica ha fatto il resto. Poteva cantare come tutti gli altri, e invece no: anche lì doveva esagerare, cantare a squarciagola, modulare il falsetto — mentre tutti gli altri scendevano di un’ottava — e magari perfino, con suprema civetteria, stonare il più alto degli acuti. Un ulteriore modo per esporsi, ancora una volta; una maniera in più di dire: “Sono vulnerabile: se vuoi colpirmi, fallo qui”.

Ero la voce più alta. Toccavo un tono e mezzo sopra gli altri, niente di più; ma tra amici — sempre gli stessi amici — è più che sufficiente. C’era sempre un punto, in ogni canzone, dove solo io riuscivo ad arrivare. Attorno il silenzio. Era un momento magico. Assolo.

Poi è arrivata Rosita e ti ha rotto le uova nel paniere. Solo un anno fa era la cuginetta che ti portavi appresso per favore un favore ai genitori; accontentarli era il tuo primo successo della serata, prima di cominciare a riscuoterne fuori casa. Adesso però è il momento di intervenire: non puoi lasciare che tutto finisca a mare in questo modo. Non farti scrupolo di lei: lei di te non se n’è fatto. E non pensare che sia qualcosa di brutto: non è certo per vendetta che lo fai, ma per giustizia. Si tratta solo di riportare un po’ di equilibrio in una serata che potrebbe andare molto, molto meglio di così.

«Lo sapete che a Rosita è spuntato un foruncolo proprio “lì”? È uno spasso. Dai, Rosy, faglielo vedere» dici. Ed è come se avessi premuto il tasto di stop nel mezzo di una proiezione. Nessuno parla più, non si muove più niente. Ma non preoccuparti, non è un vero e proprio stop; è solo una pausa. Adesso riprende.

Rosita ti guarda con occhi di lava, se potesse ti direbbe la cosa più velenosa, tagliente, corrosiva che tu abbia mai sentito; ma non sa cosa dirti, non le viene in mente niente. Ehi: è soltanto una ragazzina.

Tu invece assapori questo momento in un modo che neanche immaginavi potesse esistere: anche se è la tua prima volta, da oggi farai di tutto per riprovarlo.
Caspita, è un bel pezzo che sono tutti congelati; nessuno è capace di venir fuori dall’impasse, ma non ci fare caso, sono tutti uomini. Dovrai pensarci tu.
Tu hai premuto il pulsante, tu devi far ripartire il film. E lo farai. Prenditi ancora un attimo, però: occasioni così non capitano tutti i giorni. Lascia che questa sensazione — comunque tu la voglia chiamare — continui a scorrerti dentro per un istante. Uno solo. Approfittane per guardarla in faccia. Fissa quegli occhi un’ultima volta e lèggine il pensiero. Non è più lo stesso di prima. C’era scritta la voglia di crescere. Be’, ora è cresciuta.

Questo racconto è stato scritto da Paolo Calabrò e pubblicato per la prima volta il 28 giugno 2016 da Piego di Libri.

Paolo CalabròPaolo Calabrò è laureato in scienze dell’informazione (Salerno 1996) e in filosofia (Napoli 2004). Gestisce il sito ufficiale in italiano del filosofo francese Maurice Bellet. Redattore della rivista «Filosofia e nuovi sentieri», collabora con il mensile «Lo Straniero» e con il bimestrale «Testimonianze», con le riviste online «Pagina3» e «AgoraVox.it». Cura le rubriche: “Considerazioni inattuali” per il settimanale «Il Caffè» di Caserta e “Dal testo al contesto” per il mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello (PG). Ha pubblicato lo scorso anno il proprio romanzo “L’intransigenza. I gialli del Dio perverso“ e in questi giorni, come co-autore e co-curatore, “C’è un sole che si muore”, opera dell’associazione di scrittori «NapoliNoir» di cui fa parte. Puoi trovare i suoi libri sul sito della casa editrice Il Prato.