“Asakusa, morbida come una prugna, spennellata di turisti che lottavano coi portantini attorno a traballanti impalcature di risciò, sembrava appena tolta di peso, fresca e trillante, da un romanzo di Kawabata: il colore rosso signoreggiava ovunque, nelle scatole di confetti ammassate sulle bancarelle ai piedi del tempio, tra le architetture sfondate, sulla carta delle lanterne esposte a grappoli nei negozi di souvenir, tra i riflessi sbiaditi e vaporosi degli occhiali dei venditori di soba. I miasmi zuccherini delle fritture, l’aroma caramelloso degli spiedini di pollo. Il mite bagliore delle fragole nella glassa. I dolci e le marmellate di fagioli, gli inossidabili fagioli azuki, pestati nell’anko, ridotti in poltiglia, ma anche sciolti, in grani solitari, come pillole di un rosso mestruale. La coda vermiglia di un gamberone affiorava da un sampuru in cui l’autore aveva scolpito la replica fedele di una zuppa di crostacei. (…). Copie del cibo, Plastica. Materiale dimostrativo per ristoranti. Esercizi imponderabili di natura morta. Arte. La mentalità di un popolo reclusa in quei fac-simili tridimensionali. La precisione del gesto, l’orgoglio perfezionista, la sterminata angoscia della realtà.”

Per chi non fosse un nipponista, Asakusa è un quartiere tradizionale di Tokyo, i soba caratteristici tagliolini di grano saraceno, l’anko una marmellata di fagioli dolci. I sampuru riproduzioni di cibo rigorosamente in cloruro di vinile, divenute addirittura fonte di ispirazione per il cibo reale e non ispirate dal cibo reale! Ma fin dove giungono quanto a fantasia questi giapponesi! Accidenti a loro e alla loro mania di imitazione!

Ancora:

“Shinagawa è un quartiere tranquillo, un quartiere-mollusco che qua e là si compiace in disciplinati richiami alla tradizione, con alberghi appesi alle gobbe di un terreno a saliscendi che quando meno te lo aspetti ti propone uno stagno dove le carpe Koi si allungano e fluttuano come sagome dipinte a mano, tra viali di scorrimento, drugstore anche graziosi con insegne anche graziose che contendono il primato della luce a lunghi sibillini semafori: questi ultimi meno graziosi, immobili contro lo sfondo fiammeggiante del crepuscolo. Poi subito è cupezza invasa da pennellate di neon. (…). Si abita ovunque, le membra vanno a stiparsi con un ritmo infernale. Appartamenti fasciati nello slancio verticale del cemento antisismico, sorretti da pilastri nascosti che nascostamente ammortizzano ogni cosa (davvero, anche il dolore), cubicoli per esistenze che si allocano ragionevoli e discrete.”

È Tokyo, con il suo brulicante traffico, su cui incombono grattacieli eretti dai giapponesi “per vendicarsi del vuoto che li affligge”, ma anche con le sue aree più tranquille, che emanano invece un senso di ordine rigoroso e quasi irreale, l’ambiente che, come un pugno sui denti, accoglie Alberto Roi e Thomas Asca, disorientati della vita. E dalla vita.

Stranieri. Il giusto per non sentirsi parte di. Il giusto per sentire di poter appartenere a una qualsivoglia casuale realtà. Capitati in Giappone dunque. Quasi per caso. Come appaiono i giapponesi ai loro occhi? Parafrasando Kafka, in una lettera scritta all’amico Max Brod, come pensieri nichilistici, pensieri suicidi che affiorano nella mente di Dio.

Ma ai, credo rarissimi, originari del Sol Levante, dico: tranquilli, non offendetevi. In fondo il buon vecchio Franz si riferiva, scoraggiato, all’intera umanità. E alla completa mancanza di significato dell’esistenza.

Per sopravvivere in questo vuoto cosmico servono appigli? Alberto e Thomas hanno un’idea: coca e sesso.

Della prima Thomas Asca, maltese di origine, ne fa un uso spasmodico: lo immaginiamo con le narici costantemente imperlate di sottili granuli di polvere bianca sul finire del 2005, quando si improvvisa guida turistica per attempati businessmen americani desiderosi di affogare lo stress e il ricordo di consorti borghesi lasciate oltre-Pacifico in occasionali rapporti con prostitute locali atte a soddisfare ogni perversione.

Già, il sesso. Ormai goffamente praticato per dimenticare il senso di solitudine che sovente ti porti dietro (pazienza se ci si sbatte pure un frigorifero!). Assieme alla sopra menzionata mancanza di significato dell’esistenza.

Alberto Roi, ad esempio, anche lui cocainomane, è un consumatore mai satollo di piaceri erotici. Ottenuti copulando con algide e seriose mignotte dagli occhi a mandorla. Ma anche non disdicendo i servigi di Motoko, sessantenne padrona di casa, quasi frigida, sopravvissuta anni or sono a un attentato in metrò in cui il convivente fratello perse la vista (quella che, con poco tatto, Alberto chiama la sua “Opzione Geriatrica”).

Il tutto condito con quell’indolenza, tipicamente romana (di Cinecittà) di Alberto Roi, in qualità di unico figlio maschio, ex rampollo di una rispettabile ditta di import-export di fotocopiatrici fondata dal padre prematuramente scomparso. Ex perché sostituito alla guida dell’azienda dall’astuto cognato, l’odiato calabrese, marito della sorella, ossia colui che l’ha mandato in avanscoperta ad allacciare proficue relazioni commerciali in oriente (incarico, è ovvio, che Alberto ha prontamente disatteso).

Che dire, insomma? Romanzo porno-esistenzialista, a suo modo profondo, ma ostico, decisamente non per tutti. Almeno per quel che concerne lo stile utilizzato, ampolloso, a tratti barocco, per cui spesso si è attratti dalla massiccia dose di (amara) ironia adoperata, ma alle volte ci si perde nei ghirigori delle frasi.

Sono sincero: mi è stato utile un vocabolario di italiano, a testimonianza comunque della profonda cultura (anche scientifica, zoologica) dello scrittore, oltre che di una notevole conoscenza del paese asiatico (no, non serve il dizionario di giapponese: per la spiegazione dei termini nipponici ci pensa il Patriarca con una legenda situata alla fine del testo, zeppa di curiosità e di amenità).

Ma, alla fine, dopo aver letto il libro, si ha voglia di scoprire il Giappone? Probabilmente sì e non solo per il sesso; anche per esplorare un popolo affascinato dalla shintoistica idea di ubbidienza ad una qual che sia autorità superiore, non importa se trattasi di “una gelida rete di computer o un milionario assassino dalla gran barba lanuginosa.

Accipicchia, se non altro Tokyo Transit può essere più utile de Le falde del Kilimangiaro. Allora, si comprino i biglietti. E buon viaggio!

Autore: Fabrizio Patriarca
Titolo: Tokyo transit
Editore: 66th and 2nd
Anno: 2016