Il ruolo del correttore di bozze nasce originariamente come ausiliario all’attività del redattore. Infatti la sua prima incombenza era quella di verificare la congruità del testo copiato dal tipografo con l’originale manoscritto o dattiloscritto proveniente dall’autore. Compito, questo, oggigiorno del tutto sorpassato, grazie alla trasmissione dei file in formato digitale, che non richiedono dunque alcuna trasposizione per la stampa.

In pratica, il correttore doveva assicurarsi che si stampasse proprio quel volume, e non un qualche romanzo disperso tra le carte disordinate dell’ufficio tecnico o dimenticato nell’angolo di una scrivania.

Questi inoltre aveva il compito di rintracciare errori e scorrettezza scappati alle precedenti revisioni del testo, ossia agli occhi vigili dell’autore, dell’editor e infine del redattore. Del resto, scrive Ferdinando Scala nel suo Manuale per la correzione di bozze, gli errori sono come le teste di Medusa: quando pensi di averne scovato uno, altri tre si palesano alle tue spalle.

Ma di quali errori si parla?

Nell’attività di editing si possono delineare tre macrocategorie: quelli grammaticali (temuti e imbarazzanti per gli autori), quelli di contenuto (frequenti quando le idee dello scrittore sono un gomitolo annodato) e i refusi, errori che riguardano l’aspetto tipografico del testo (una lettera maiuscola fuori posto oppure un grassetto in eccesso).

C’è davvero da sbizzarrirsi, considerando inoltre la natura subdola e ingannevole di queste machiavelliche imperfezioni, che si celano malignamente agli occhi indagatori del correttore.

Eppure per diventare un correttore di bozze non possono mancare alcune qualità, come pazienza e attenzione, unite a un consistente bagaglio di cultura generale e un’ottima conoscenza della grammatica italiana.

Infatti sono proprio gli strafalcioni grammaticali a contraddistinguere oggi le pubblicazioni di numerosi autori semi-sconosciuti, che bussano alle porte delle case editrice con l’aspettativa di racimolare qualche briciola di celebrità.

Il correttore, con la penna rossa e il dizionario aperto, si avventura in questa foresta di sfarfalloni: pronomi errati, scempio delle geminate, congiuntivi incerti e accenti fuori posto. Si scrive un armadio o forse un’armadio? Gli o le? Fu o fù?

E così anche il correttore finisce nella confusione! Come dice il proverbio, un po’ rivisitato: chi va con lo sgrammaticato, si sgrammatica anch’egli!

Tanto è veloce a infilzare con la biro rossa una virgola fuori posto, domandandosi come si possa scrivere in questa terribile maniera, così il correttore è l’amico distratto che non rilegge i messaggi inviati in una chat, lasciando in sospeso sullo schermo orrori ed errori di grammatica.

Capita poi che i personaggi a metà romanzo decidano di cambiare nome, subendo un’inattesa trasformazione da pagina cinquanta: John diventa Terry, la città di Louisville si trasforma nella moderna Denver e una pizzeria fuori mano diviene un ristorante sulla Fifth Avenue.

L’autore, nel pieno della sua creatività, sembra dimenticare i nomi e i luoghi del proprio racconto, incespicando nella trappola della memoria, che gli fa scegliere all’improvviso toponimi e parentele all’inizio scartati.

In questo groviglio di appellativi, il correttore è chiamato a riconoscere lo scambio repentino di personaggi, senza lasciarsi trascinare dalla corrente della narrazione, inarrestabile nel suo flusso di parole. Ma chi è Terry?, si domanda all’improvviso nel mezzo della lettura, sollevando lo sguardo dall’inchiostro del romanzo.

E guai se lavora contemporaneamente a più testi: districarsi tra le narrazioni diventa una vera sfida, specialmente se i John e le Tiffany compaiono qui e lì in vesti sempre nuove.

Quando poi all’orecchio del correttore l’ardito Terry suona più accattivante del monotono John, l’intero romanzo va ricominciato, passando al vaglio tutte le accezioni del nome, cosicché il lettore non debba chiedersi a metà del racconto: ma chi è John?

Definita spesso una manovalanza culturale, la correzione di bozze tra le molte frustrazioni regala talvolta qualche piacevole momento: scoprire che la protagonista del romanzo abita nella stessa città o porta lo stesso nome del correttore; ritenersi il primo lettore di un futuro best seller e dimenticarsi per un momento di essere l’ultima ruota del carro dell’editoria; tirare un sospiro di sollievo quando un racconto davvero illeggibile dura solo settantotto pagine; sentirsi l’erede di Vittorini quando si trova l’aggettivo perfetto per la frase perfetta.

Infine poter dire di fare il lavoro per il quale si a studiato.

Le dico di quella volta che la prof chiese a Zita perché mai in una verifica aveva scritto la parola errore con una erre.

– Perché altrimenti – aveva risposto Zita – non sarebbe un errore.

(L’isola di Cicero, Antonio Ferrara)