Questo capolavoro è disperso all’interno di una celebre collana, più come perla tra le perle che come pagliuzza d’oro nella sabbia del letto di un fiume aureo, e il suo dorso verde acquamarina potrebbe passare inosservato in mezzo ai colori pastello della collana Biblioteca Adelphi dell’omonima casa editrice e dal 1994 anche nell’edizione tascabile de Gli Adelphi.

Il titolo italiano sembra derivare dalla celebre poesia di William Blake:

Tiger tiger, burning bright,
In the forests of the night;

Quanti grandi capolavori hanno come titolo il verso di una poesia. Tenera è la notte di Fitzgerald che riprende un verso dell’Ode a un usignolo di Keats. Per chi suona la campana di Hemingway dall’omonima poesia di John Donne. Domani nella battaglia pensa a me, ma molti titoli di Marías, dal bellissimo Un cuore così bianco (scoperto dall’editore Donzelli nel 1996) a Nera schiena del tempo, riprendono un verso del Bardo, ma questa è un’altra storia…

Anche perché in realtà il titolo originale è Nightwood e Blake non c’entra niente. Djuna Barnes scriveva invece a Emily Holmes Coleman: «Ho avuto un’idea per il titolo, penso: Nightwood, così, una parola sola, il suono dà l’idea di buio notturno, di veleno e di notte e di foresta, ed è duro, nel senso di corposo, semplice eppure singolare».

Djuna Barnes si dava appuntamento con T.S. Eliot alla libreria Shakespeare & Company di Parigi e gli leggeva le pagine del romanzo che aveva scritto la notte precedente, prima o dopo una di quelle celebri feste della Belle Époque spezzate dalla prima guerra mondiale e continuate con la Lost Generation (dalla definizione di Hemingway in Fiesta) che racconterà Fitzgerald proprio in Tenera è la notte.

E così Eliot si innamorò di questo libro (nonostante ritenesse che la Barnes avesse “Tanto genio, ma così poco talento…”) e scrisse quella celebre introduzione che accompagna, dalla sua uscita nel 1936, ogni nuova edizione del romanzo, affermando tra l’altro, alla fine di questa citazione, una grande e tuttora attuale verità:

«Non voglio dar l’impressione che i meriti di questo libro siano soprattutto verbali, e ancor meno che questo stupefacente linguaggio nasconda una vacuità di contenuto. Se il termine “romanzo” non si è troppo svilito, e se sta a indicare un libro nel quale si creino personaggi vivi e li si mostri in rapporti non gratuiti, questo libro è un romanzo. E non intendo dire che lo stile di Miss Barnes sia “prosa poetica”; intendo però dire che la maggior parte dei romanzi contemporanei non sono veramente “scritti”»

Non mi ricordo né dove né quando. E neppure se l’ho mai fatto. Ma mi pare di aver già parlato dell’affascinante bellezza dei libri che non raccontano nulla. Beh ecco. Questo è uno di quelli.

Senza ribadire il sospetto di “vacuità del contenuto” è giusto sottolineare come il flusso verbale della prosa si traduca nel controsenso di essere l’onnipresente ossigeno narrativo che vivica ogni cosa, fino al limite d’indurre nel lettore un principio d’asfissia che trasfigura la realtà e incupisce ambiguamente le cose e i gesti e i fatti e le sembianze ammantandole di un’ombra di sogno a occhi aperti, che trascende nell’allucinazione.

Ché a dire il vero qualcosa racconta. Un’esile trama c’è. È percepibile e perseguibile. Ma è talmente esile che è come seguire la scia di una lumaca di notte. La trama, in questo romanzo, è come il cuore del cavolo. Un cuore di tenebra. Come si presume fossero i preliminari la prima notte di nozze in Epoca Vittoriana. Con quella frenetica ricerca della felicità celata sotto strati di tulle e veli di organza, corsetti con stecche di balena, crinoline e mutandoni della bisnonna.

Il romanzo è scandito da capitoli non lineari, che ci portano da una città all’altra, tra Parigi e New York, in tempi diversi e in situazioni diverse che disorientano il lettore. Un libro che all’epoca fu un vero scandalo, in quanto mette in scena non i membri della “famiglia tradizionale”, ma personaggi “sterili”: travestiti, prostitute, preti spretati, e soprattutto le relazioni tra donne: l’amore lesbico.

All’inizio sembrerebbe che il protagonista sia il conte Guido Volkbein, la cui moglie Hedvig muore nella prima pagina del libro, dando al mondo e introducendo nel romanzo il figlio Felix:

«Al principio del 1880, nonostante un fondato dubbio sull’opportunità di perpetuare la razza che ha la sanzione del Signore e il biasimo degli uomini, Hedvig Volkbein – una viennese di grande vigore e di bellezza marziale, distesa su un letto a baldacchino di un cremisi pastoso e spettacolare, le ali biforcute della Casa di Asburgo impresse sulla cortina, la trapunta un involucro di raso su cui spiccava, in spessi e bruniti fili d’oro, lo stemma dei Volkbein – diede alla luce, all’età di quarantacinque anni, un maschio, figlio unico, con sette giorni di ritardo sulle previsioni del medico»

Seguiamo quindi le vicende di Felix Volkbein fino al suo matrimonio con Robin Vote. È lei quindi la vera protagonista, pensiamo. Robin, la “sonnambula” per come si aggira scombussolata alla ricerca di un centro di gravità per il romanzo, contesa rabbiosamente da due donne innamorate di lei fino al delirio: Nora, con cui vivrà un amore felice fino a quando ricomincerà le sue “ronde di notte”, fatte di alcol e di sesso, e Jenny, la “gazza ladra”, che la ruberà a Nora e al mondo, volendo rinchiuderla sotto la fragile cupola di vetro di un’esistenza felice quanto monotona.

Finchè invece, man mano che avanziamo nella lettura, scopriamo che il vero protagonista, il deus ex machina del romanzo è un altro…

A fare da trait-d’union, a tenere insieme questo romanzo onirico, intessuto di una scrittura poetica ed evocativa, è la figura di un unico personaggio che giganteggia tra gli altri, chiedendo per sé, al suono come di corno, lungo e cupo, di interminabili monologhi, tutta l’attenzione del lettore, come usano fare gli ubriachi quando diventano molesti: alzano la voce, barcollano, urtano gli altri avventori e rovesciano bicchieri, stramazzando sul lurido pavimento fino all’orario di chiusura, quando l’oste li scopa sulla soglia del locale, perché i fumi dell’alcol si disperdano nella notte.

Questo personaggio è il Dottore. Il dottor Matthew O’Connor! Quello che è stato definito il primo trans della letteratura occidentale…

Un personaggio che per tutto il romanzo si esprime in lunghi monologhi deliranti di questo tipo:

«Ja! Das ist ganz richtig…» disse forte la Duchessa, ma l’interruzione fu inutile. Una volta che il dottore aveva il suo pubblico – e se lo assicurava con il semplice sistema di pronunciare a voce altissima (irritabile e possessiva, in quei momenti, come quella di una donna infuriata) una scelta di brevi verbi sassoni arcaici tra i più volgari e mordaci –, nulla poteva fermarlo. Si limitò a puntarle addosso i grandi occhi e così notò per la prima volta lei e il suo abbigliamento, il che, riportandogli d’un tratto alla mente qualcosa di dimenticato ma somigliante, lo fece scoppiare in una gran risata ed escamare: «Ma guarda un po’ che vie misteriose ha Dio di farmi tornare in mente certe cose! Ora sto pensando a Nikka, il negro che lottava con l’orso nel Cirque de Paris. Me lo vedo ancora muoversi qua e là per l’arena ranicchiato su se stesso, senza nient’altro indosso che un malcelato perizoma tutto rigonfio come di una preda d’alto mare, e tatuato dalla testa ai piedi di tutto l’ameublement della depravazione! Inghirlandato di boccioli di rosa e di sgorbi demoniaci… che spettacolo! Però non sarebbe riuscito a combinare nulla (e so quel che dico, nonostante tutte le chiacchiere sui ragazzi negri) neanche a lavorarci su una settimana, e sì che dicono che quando ce l’aveva ritto ci stava scritto Desdemona»

Insomma un libro da leggere perché volendo aggiungere il nostro blurb a quello redatto da Eliot per la fascetta editoriale della prima edizione in cui diceva che: «Questo libro piacerà innanzi tutto ai lettori di poesia», diciamo con una frase tanto in voga in questi anni che: «Questo libro è da leggere perché non è un romanzo, è un’esperienza».

Djuna Barnes
La Foresta della Notte
Nightwood
Traduzione di Giulia Arborio Mella
Adelphi, 1983