Diversi studiosi hanno affrontato il dibattito sulla percezione del “colore” nell’antichità, trovando argomentazioni e risposte diverse nella vastità della letteratura classica.

Nel mondo antico i colori erano descritti differentemente rispetto alla nostra capacità di percezione e di descrizione. Se noi siamo abituati a ricorrere a termini oggettivi e scientifici per descrivere le centinaia di sfumature che la natura e l’opera dell’uomo offrono ai nostri occhi, la letteratura greca ci consegna un’immagine del mondo antico caratterizzata da una descrizione dei colori soggettiva e personale.

Il lessico greco descriveva e gerarchizzava i colori in base al grado di luminosità e alla loro capacità di riflettere la luce, spaziando dai toni più luminosi a quelli più cupi. Il colore γλαυκός (glaukos), infatti, significa “brillante”, “rilucente”, come il mare che brilla di luce o come gli occhi di Atena, “chiari e luminosi come quelli di una civetta”.

Nell’ aforisma 426 di Aurora Friedrich Nietzsche riflette su questa stranezza degli antichi greci, che egli riconduce però a una cecità cromatica:

«Quanto diversamente i Greci hanno veduto la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno più scuro, in luogo del secondo un giallo ….– quanto diversa e quanto più vicina agli uomini dovette apparire loro la natura, dal momento che ai loro occhi i colori degli uomini erano anche nella natura preponderanti e questa nuotava, per così dire, nell’atmosfera dei colori umani!».

Le parole di Nietzsche sono solo uno degli ultimi contributi di un dibattito molto lungo, particolarmente vivo nel XIX secolo. Fu Wolfgang von Goethe (1749-1842) a dare avvio a una serie di riflessioni sul modo in cui gli antichi greci descrivevano i colori. Nella parte storica della Farbenlehre (la Teoria dei colori) Goethe nota, infatti, che i nomi dei colori nella lingua greca erano “mobili e oscillanti”, privi di qualsiasi fissità e stabilità.  Nella lingua greca la descrizione esatta delle tinte era sostituita da una concezione psicologica e soggettiva del colore. I colori erano un’esperienza umana, lontani da qualsiasi determinazione fisica ed estranei alla moderna scomposizione della luce bianca nel prisma teorizzato da Isaac Newton.

I confini tra i diversi colori erano labili e facilmente valicabili. Il greco ξανθός (xanthos) indica, infatti, un colore che spazia dal giallo al rosso. Tale termine è impiegato per descrivere il colore del grano maturo e i capelli biondi degli eroi omerici, ma descrive anche il sole rosso del tramonto e alla luce calda e rassicurante del fuoco che illumina la notte. Κύανεος (kuaneos), da cui deriva l’italiano ciano, indica invece un colore scuro, che varia dal blu al viola.

L’aggettivo πορφύρεος (porphyreos) significa “agitato”, “ribollente”, ed indica il color porpora che dal rosso giunge al blu. L’ampiezza semantica ricoperta dal termine porphyreos non dipende da una indefinitezza intrinseca al nome, ma dalla modalità di produzione della porpora nel mondo antico. Ricavato dal succo estratto da alcune conchiglie, tale colore poteva variare in diverse tinture a seconda del dosaggio o del momento di arresto del processo.

Solo due termini hanno un significato chiaramente precisabile nella lingua greca: λευκός (leukos) e μέλας (melas), rispettivamente bianco e nero, che cromaticamente rappre sentano l’antitesi tra luce e oscurità. Secondo i greci era proprio dalla mescolanza di luci e di ombre che si formavano i colori.

Questo modo inedito di descrivere le associazioni cromatiche portò molti studiosi del Settecento e dell’Ottocento ad affermare che i greci non vedevano tutti i colori che vediamo noi oggi. William Gladstone nei suoi Studies on Homer (1858) notò la vaghezza della designazione del blu, descritto a volte con una sfumatura scura, quasi nera, altre con una chiara, grigia. Tali osservazioni condussero Gladstone a denunciare l’incapacità dei greci di distinguere i diversi colori tra loro.

La particolare enfasi che la lingua greca pone sulle nozioni di splendore e lucentezza dei colori, a scapito della descrizione della tinta cromatica, è determinata da necessità affettivo-simboliche. Pur cogliendo le differenze cromatiche del reale, i greci non sentivano il bisogno di dare loro nomi distinti.

Gli antichi greci arricchivano i colori di significati personali, conferendo ogni volta un senso di minore o maggiore luminosità. Questa diversità della lingua greca ci induce a riflettere sul modo attuale di descrivere le diverse cromature del reale, stimolandoci a ricercare nuove sfumature e nuovi significati al mondo circostante. Ci induce a fermarci, a riflettere e a ripensare ai nostri colori. Come scrive Cesare Pavese nell’ultimo paragrafo di Agonia:

E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.

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