Saggezza e parsimonia. Felicità da sorseggiare a piccole dosi, per non rischiare di rimanerne ebbri, specialmente se giunta dopo lunghi anni di sete, ma anche di fame, di pericoli, di miseria. O, chissà se dietro quel sapore dolciastro che sa di benedizione, non si celi beffardo il retrogusto amaro della maledizione…

Forse sono questi i pensieri che agitano la mente di Valente Montaño, il quale, dopo aver attraversato diciotto volte illegalmente il confine che separa il Messico da Gringolandia (volgarmente detta anche Stati Uniti d’America…) in cerca di fortuna, decide, racimolati un bel po’ di quattrini, di aprire una pizzeria nella natia San Gregorio, scelta invero piuttosto curiosa in un paese in cui abbondano tacos tortillas. 

Valente Montaño, Ulisse messicano.

Si, perché “Il linguaggio del gioco” di Daniel Sada (Del Vecchio Editore) è prima di tutto la storia di un ritorno nella terra natale dopo molte peripezie.

Dice di sé, guarda caso, Daniel Sada (nel corso di un’intervista rilasciata in occasione dell’uscita del precedente romanzo Quasi mai alla domanda su che cosa differenzia gli scrittori classici da quelli contemporanei): la mia formazione è eminentemente classica. Non ho frequentato la letteratura contemporanea fino ai 25 anni. Nel mio paese non c’erano biblioteche, c’era solo una maestra che proponeva unicamente autori classici. Le mie letture sono state pertanto controcorrente (…)”.

A testimonianza, se non di un legame, almeno di un riferimento, di un’ispirazione ai personaggi della letteratura classica, quali, ad esempio, il sopra citato eroe omerico.

Ma, con il rischio di compiere un volo pindarico, anche di molti secoli, come non scomodare a questo punto l’altro grande Ulisse della letteratura mondiale: quel Leopold Bloom joyciano e la sue avventure nel mondo, simboleggiato da una Dublino con tutte le sue ambiguità.

Entrambe le opere sono infatti degli esperimenti da un punto di vista prettamente stilistico, ma con approdi praticamente agli antipodi: se l’opera dello scrittore irlandese è caratterizzata dal “flusso di coscienza”, ossia da frasi lunghissime e senza punteggiatura a rappresentare la fluidità del pensiero umano, l’opera dell’autore latinoamericano si distingue per le sue frasi al contrario molto brevi, con un uso quasi “frenetico” della punteggiatura.

Ed è proprio questo il “linguaggio del gioco” indicato nel titolo! Come se Sada considerasse la realtà un oggetto meccanico da smontare, da scomporre in ogni suo pezzo, in ogni singolo componente, anche minuscolo, al fine di farne percepire le tante sfaccettature e la sua complessità; quasi non stupirebbe  se queste frasi corte venissero disposte a mo’ di poema; e, fatalità, l’Odissea è un poema!

Il risultato è un’opera che dà un taglio un po’ barocco, tragicomico, ad un tema trattato di per sé serissimo e tristissimo: il racconto di un ritorno a casa si trasforma infatti rapidamente in una storia segnata dalla violenza, dai soprusi, dagli spargimenti di sangue: la città di San Gregorio diventa ben presto teatro di cruenti scontri fra bande rivali dedite al narcotraffico, al pizzo, allo sfruttamento della prostituzione.

Candelario, figlio di Valente, sedotto dalle possibilità di arricchirsi e dal potere esercitato, entra nel mondo della criminalità fino a diventarne lui stesso un capo.

Egli, che assumerà il ruolo da protagonista del romanzo scalzando il padre, è, in opposizione a quest’ultimo, un anti-Ulisse: mentre Valente, lo abbiamo visto, ha percorso la via del ritorno, Candelario, invece, il ritorno lo simulerà soltanto, ormai convinto dell’ineluttabilità del male.

Come definire, insomma, quest’ultima fatica di Daniel Sada (l’autore messicano è infatti scomparso nel 2011)? Un romanzo sull’immigrazione clandestina? Non solo. Un libro sul mondo del narcotraffico? Nemmeno soltanto quello.

Piuttosto, un’opera in cui gli argomenti sono trattati con originalità e con desiderio di sperimentazione. Da leggere ovviamente.