La grande stagione è il romanzo d’esordio del giornalista Paolo Ruggiero, che vive e lavora a Parigi. Un libro a due velocità. Da una parte c’è l’incipit del romanzo e l’introduzione del tema principale, lento ma non troppo; dall’altra la vita prende il sopravvento e ci si lancia in una rumba scatenata.

Inizialmente il tono è apodittico, sentenzioso, monocorde e anche autoreferenziale se vogliamo (come nella tradizione del romanzo ombelicale), eppure non privo di un certo fascino che scaturisce dal carisma della voce narrante. Non c’è niente di frivolo nell’incipit di questa narrazione senza fronzoli, tutto è essenziale, perché si narra, con qualche romanzesca digressione, di un destino e della sua fatalità.

Ricorda efficacemente la narrazione in prima persona di certi personaggi emblematici della narrativa occidentale: quel memoriale ricco di rimembranze, che viene snocciolato da Marlow sull’imbarcazione alla rada in un’ansa del Tamigi, in Cuore di Tenebra; o lo storytelling denso di suspense intessuto per una lunga notte al bancone di un bar dal narratore di In culo al mondo (e così tipica di molti altri personaggi di Lobo Antunes).

Così nelle prime pagine, nella scena d’apertura del ritorno a casa in Friuli, nella terra natia, scopriamo il tema essenziale, fondamentale, arcaico, che diviene la colonna vertebrale di questo romanzo, come di ogni esistenza. Il protagonista, Livio, si reca sulla tomba del padre, morto giovane in un incidente aereo, eppure, ovviamente, sempre presente nella vita dell’eroe:

«Sono diciotto anni che non c’è più mio padre. Di tanti momenti vissuti assieme conservo ricordi nitidi, gioiosi, l’immagine di un’infanzia serena. A novembre ne ho compiuti ventotto. Quando è mancato ne aveva trantacinque. Mi chiedo come sarà il giorno che ne avrò trentasei. Forse mi sembrerà di dover essere ancora più padre di me stesso»

Un’assenza talmente grande da divenire ossessiva presenza:

«Guardo la fotografia sulla lapide. Mi avvicino, poi mi allontano di qualche passo, più volte. Cerco una distanza ideale. Quando mi sembra di averla trovata resto fermo, qualche minuto. Poi arriva la sensazione. È come un contatto planare, una mano che sfiora la schiena. È solo un istante»

Un fantasma paterno che spinge alla narrazione, alla ricerca dell’agnizione, della risoluzione dell’enigma della fine di un’esistenza, come l’apparizione del fantasma del padre di Amleto, sulle torri del castello di Elsinore durante i turni di chi è di guardia alla lunga notte, spinge il figlio verso il suo tragico destino, innescato dalla ricerca della verità, della vera causa della morte del padre.

E allora per il protagonista ha inizio una nuova, travolgente Grande Stagione, dalla consegna della tesi a Bologna, il lavoro a Parigi e poi K, il ritorno sull’isola greca. Avventure e scopate, tante donne e tante, tante lunghe (e dettagliate) scopate. Nella più classica esposizione della teoria della compensazione, la perdita del padre che spinge a riempire il vuoto esistenziale gettandosi a capofitto nella frenesia della vita, con un’esistenza rocambolesca e superficiale che riempe le pagine di questo romanzo, che diviene, anche, romanzo d’avventure… galanti.

E ogni tanto una pausa di riflessione, di ritorno alle origini (di ogni malanno e malessere), al nodo gordiano (che non riveleremo come verrà sciolto alla fine del romanzo, perché a volte la spannung finisce non già con un’esplosione, ma con un gemito che sembra un risibile risolino), che si rivela quasi poeticamente, nella prosaicità di una narrazione per il resto apparentemente superficiale:

«Accendo il giradischi Grundig di mio padre. Non amava il suono dei cd. Lo rivedo, mentre estrae un 33 giri di De André dalla busta, posandolo sul piatto, come sto facendo a mia volta. Appoggia la puntina sul vinile, regola il volume. Riempio di musica questa mansarda, dove tutto è rimasto come allora.
Lo rivedo mentre a tavola con il coltello intarsia una scheggia di parmigiano…
Mentre si arrampica sull’albero di nove metri per fissarci un anemometro…
Tirare dolcemente la cloche, staccando dalla pista erbosa un Piper…
Prendere delle rose per mia madre…
Lo rivedo, confezionare razzetti con cerini e carta stagnola, che facemmo decollare dal davanzale della cucina…
Urlare dal giardino di lanciargli la chiave dalla finestra…
Erano risate, scemenze, spensieratezza che saliva fino in mansarda assieme agli odori della cena, e intanto mia madre, come ha fatto adesso, stessa voce, si affacciava alle scale per chiamarmi»

Insomma che dire, una voce già matura, autorevole, nonostante questo sia il suo esordio nel romanzo. Certo bisogna aspettare una seconda prova, dove di solito l’autobiografismo lascia spazio a tematiche meno impellenti e più ragionate. Eppure, per parafrasare il titolo di un grande autore contemporaneo, Paolo Ruggiero ha già staccato l’ombra da terra e sembra veleggiare sicuro nel cielo della narrativa italiana.

Paolo Ruggiero
La grande stagione

Castelvecchi
2020