Oggi parliamo di addii.

Ne “Il giocatore”, Dostoevskij scrive che “Gli uomini, non soltanto alla roulette, ma ovunque, non fanno altro che togliersi o vincersi qualcosa reciprocamente”.

Che si dica addio a un amore nel quale abbiamo investito anni della nostra vita o a una storia breve ma intensa, carica di passione, il boccone è sempre difficile da mandare giù, anche se lo si mastica molto lentamente.

Dirsi addio non è qualcosa di inaspettato come quando si decide di interrompere una relazione che pensavamo fosse destinata a continuare. Non é un sinonimo di rottura.

Dirsi addio – per riprendere il caro Dostoevskij citato sopra – è un po’ come giocare alla roulette: si inizia alla cieca, consci di essere destinati a perdere tutto, si rischia fino alla fine e quando questa arriva la si saluta con un inchino e ci si allontana, amareggiati per la sconfitta, ma fieri di aver provato l’ebbrezza di partecipare.

Allontaniamoci ora dalle divagazioni a sfondo russo per spostarci invece ai casi concreti.

Anche a te sarà capitato di dire addio, convinto che fosse la cosa più giusta da fare, anche se non la più indolore.

Buttarsi nella lettura è sempre un consiglio d’oro, come ho scritto in un MondayBreakfast di qualche tempo fa dedicato alla biblioterapia. Qui però non si parla di fine, ma di un impalpabile addio… Non la sentite la pesantezza della doppia “d” e la leggerezza delle vocali… Così angosciante ma allo stesso tempo liberatorio?

Che fare quindi?

Nietzsche aveva ragione quando diceva che “l’amore è una forma di pazzia”. Alcuni ricercatori dell’Università di San Diego, California, confermano la tesi del filosofo e sostengono che il comportamento di una persona innamorata può in certi casi essere paragonato a quello di chi soffre di in disturbo bipolare.

Nietzsche sostiene però anche che “dietro a ogni forma di pazzia si nasconde la ragione”. Ragione non intesa come lucidità ma come ispirazione.

Trasformate la vostra pazzia in ispirazione, questo è il mio consiglio.

Pensate ai grandi scrittori e a come la fine di storie d’amore impossibili abbiano dato loro la forza per scrivere delle opere che oggi annoveriamo tra i grandi classici. Un articolo dell’Huffington Post ne cita cinque, io ho selezionato per voi i 3 più emblematici:

Jane Austen

Nel Natale del 1795 Jane conosce l’avvocato Lefroy: entrambi poveri, sin dall’inizio sanno che nell’Inghilterra classista del Settecento la loro passione non è destinata a durare a lungo. Nei quattro anni successivi al loro addio, però, Jane Austen scrive tre romanzi: “Ragione e Sentimento”, “Orgoglio e Pregiudizio” e “Northanger Abbey”.

W. B. Yeats

Nel 1889 Yeats incontra l’irresistibile irlandese Maud Gonne e, nel corso degli anni, si dice che le abbia dedicato innumerevoli versi e volumi di prosa. I due iniziarono una lunga relazione platonica, finalmente consumata a Parigi nel 1908 in quella che sarebbe stata la loro unica notte di passione.

J. W. Goethe

Quando si parla dell’effetto Werther ci si riferisce proprio al famoso romanzo di Goethe, scritto quando aveva soltanto 25 anni. Quello che a noi interessa è che l’opera è in parte autobiografica, in quanto anche il povero Goethe all’epoca dovette rassegnarsi alla fine di un amore non destinato a continuare: la donna di cui era perdutamente innamorato, infatti, era la promessa sposa di un altro.

Insomma, sembra proprio che dirsi addio sia come ammirare un castello: non ci si accorge della sua grandezza finché non lo si guarda da lontano.